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Neonata muore un’ora dopo il parto a Roma, genitori sotto shock cercano risposte

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Neonata muore un’ora dopo il parto a Roma, genitori sotto shock cercano risposte

I genitori di una neonata deceduta hanno sollecitato gli inquirenti a indagare sulle cause della loro perdita. Hanno espressamente chiesto se la vita della loro piccola avrebbe potuto essere salvata. Queste domande inquietanti richiedono risposte, e sarà compito dei pubblici ministeri fornirle.

Un tragico incidente ha colpito il mondo quando una bambina è morta un’ora dopo la nascita il 15 febbraio, all’Ospedale Santo Spirito di Roma. I genitori sconvolti hanno presentato una denuncia alla procura della Capitale. I pubblici ministeri ora hanno il compito di esaminare l’operato dei medici dell’ospedale.

“Cerchiamo solo la verità sulla morte di nostra figlia. Se ci sono stati degli errori causati da superficialità o negligenza, ci aspettiamo che venga fatta giustizia”, hanno dichiarato i genitori. “Ho desiderato questa bimba per tutta la vita, e non ho avuto nemmeno la possibilità di ascoltare il suo pianto. Sono ancora sotto shock, e non riesco a elaborare il mio lutto perché ho mille questioni su cosa sia realmente successo… io e mia figlia stavamo benissimo”, ha detto la madre.

Secondo i genitori, il 13 febbraio alle 15:30 è stato eseguito il primo dei quattro monitoraggi sul neonato e non è stata riscontrata alcuna anomalia. Il giorno successivo le acque si sono rotte e la madre è stata accompagnata in pronto soccorso, successivamente trasferita al reparto di ginecologia. Durante la notte del 14 febbraio, la madre ha iniziato ad avere abbondanti perdite di sangue. Tuttavia, un’infermiera l’ha tranquillizzata. Alle 6:30 del mattino è nata la bambina, ma purtroppo è morta meno di un’ora dopo.

I genitori insistono sugli inquirenti per approfondire le cause della morte, e in particolare, se vi fosse la possibilità di salvare la vita della piccola. Chiedono se l’inevitabilità di questa tragedia poteva essere evitata. Le loro domande cercano risposte, e sarà compito dei PM dare quelle risposte.

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Omicidio a Racale: quando la violenza nasce dentro casa

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Omicidio a Racale: quando la violenza nasce dentro casa

Una donna uccisa a colpi d’accetta dal figlio, una casa di famiglia trasformata in scena del crimine. A Racale, nel leccese, il pomeriggio del 17 giugno si è consumato un delitto che sconvolge un’intera comunità: Teresa Sommario, 53 anni, è stata trovata senza vita nel proprio appartamento, colpita ripetutamente alla testa e al petto. L’aggressore è il figlio maggiore, Filippo Manni, 21 anni, fermato poco dopo in stato confusionale.

Il dettaglio più inquietante, oltre alla brutalità del gesto, è la sua matrice familiare…la violenza, ancora una volta, non arriva dall’esterno: avviene tra le mura domestiche, dove dovrebbe esserci protezione, affetto o almeno convivenza. Non è un caso isolato, il contesto di conflittualità all’interno della famiglia Sommario era noto ai vicini: litigi frequenti e tensioni che, probabilmente, covavano da tempo.

Resta da capire come e perché questa tensione sia esplosa in modo tanto estremo. È una domanda che accompagna ogni caso di cronaca nera in ambito familiare, ma che continua a non trovare chiarimenti adeguati. Il delitto di Racale ci mette davanti, ancora una volta, al nodo irrisolto della violenza che nasce all’interno di legami affettivi spezzati e distorti.

Il figlio minore, presente al momento dell’aggressione, lancia l’allarme. Anche questo elemento pesa: i figli come testimoni, e spesso vittime indirette, di drammi che segnano per sempre intere esistenze.

L’indagine chiarirà i contorni esatti della vicenda, il movente preciso e le responsabilità. Ma sullo sfondo resta una considerazione difficile da ignorare: le fratture all’interno della famiglia, quando ignorate o sottovalutate, possono degenerare e trasformare una casa qualunque nel teatro di una tragedia.

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Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

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Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

Di fronte all’annuncio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di estendere il divieto dell’uso dei cellulari anche agli studenti delle scuole superiori a partire dal prossimo anno scolastico, l’opinione pubblica si spacca: da un lato c’è chi accoglie con favore la misura, considerandola una necessaria inversione di rotta per ridare centralità alla didattica, dall’altro lato, non mancano le critiche: è davvero questo il modo giusto per affrontare il problema?

Valditara parla di un “intervento improcrastinabile”, giustificato dagli “effetti negativi ampiamente dimostrati dalla ricerca scientifica”. In effetti, numerosi studi hanno messo in luce il legame tra l’uso eccessivo degli smartphone e cali di attenzione, peggioramento del rendimento scolastico, aumento dell’ansia e disturbi del sonno.

Tuttavia, vietare l’utilizzo degli smartphone in classe può sembrare un approccio troppo rigido, quasi punitivo. Non tutti gli studenti usano il cellulare per distrarsi: alcuni lo sfruttano come strumento di studio, per cercare informazioni, tradurre testi, accedere a materiali didattici. Bandirlo in modo assoluto rischia di mandare un messaggio sbagliato: lo smartphone è un nemico, e non un mezzo da imparare a gestire.

Forse è proprio qui il nodo centrale della questione: educare, piuttosto che proibire. In un mondo in cui la tecnologia penetra ogni aspetto della vita quotidiana e lavorativa, non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi un uso consapevole e responsabile degli strumenti digitali? Imparare a staccarsi dallo schermo, a concentrarsi, a distinguere tra tempo utile e tempo perso, è una competenza fondamentale tanto quanto la grammatica o la matematica.

Inoltre, c’è da chiedersi quanto il divieto sarà davvero applicabile e quanto sarà efficace. Chi controllerà? Con quali sanzioni? Non si rischia di creare solo tensione tra docenti e studenti, senza risolvere il problema alla radice?

Il provvedimento annunciato dal ministro Valditara ha il merito di rimettere al centro il valore del tempo scolastico e l’urgenza di affrontare la questione del digitale tra i giovani. Tuttavia, un vero cambiamento culturale richiede più di un semplice divieto: serve un’educazione digitale integrata, una collaborazione tra scuola e famiglia, e una riflessione collettiva su che tipo di cittadini vogliamo formare.

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