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Cambio di reputazione di Chiara Ferragni: l’esperto, ‘caso catalizza l’odio sociale’

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Cambio di reputazione di Chiara Ferragni: l’esperto, ‘caso catalizza l’odio sociale’

Chiara Ferragni e Fedez: L’Attualità sui Ferragnez
5 Febbraio 2024, 9:24
Intervistato: Andrea Barchiesi, Ingegnere elettronico e esperto in gestione e analisi della reputazione online.

Il presunto caso di truffa aggravata a carico di Chiara Ferragni e associato a Balocco ha aperto una discussione ampia. Quest’ultima non si limita solamente all’imprenditrice, ma estende il suo raggio d’azione al sistema intero delle influencer. È diventato evidente quanto tale mondo sia sottoregolamentato, ed è altrettanto evidente quanto sia pesante il vuoto normativo relativo alla pubblicità e beneficienza. A seguito delle accuse emerse contro Ferragni, la parola “reputazione” è diventata una costante nei dialoghi che la riguardano. La perdita subita non è solamente economica, ma comprende anche garanzie finanziarie, la credibilità del suo brand, contratti saltati e partner che l’hanno abbandonata. L’ultimo esempio riguarda Pigna, che ha reciso la collaborazione “rispettando il codice etico”. Il danno è anche a livello di immagine. Andrea Barchiesi, pioniere nel settore dell’ingegneria reputazionale, ha acconsentito a discuterne in dettaglio dopo essersi occupato della stessa da quando fondò Reputation Manager nel 2004.

L’avvento della rete e dei social media ha alterato in maniera radicale il concetto di reputazione. Non vi è più affidamento al passaparola, al giornale destinato a finire nella pattumiera dopo un giorno. Il digitale ha rivoluzionato tutto, generando un’identità e reputazione digitali. L’ingegneria reputazionale abbraccia simultaneamente diversi aspetti, al contrario dei media tradizionali che definiscono le proprie strategie step by step. La reputazione di Chiara Ferragni, per esempio, è data dal suo insieme, non solo dall’ultimo evento che l’ha coinvolta.

Ogni crisi, inclusa quella che riguarda Balocco e Ferragni, è diversa l’una dall’altra. Andrea Barchiesi, grazie a un modello a 11 dimensioni, ha creato un sistema che permette di dare un numero alla crisi. “La crisi Ferragni” presenta dimensioni specificamente sociali, politiche, finanziarie, giuridiche e molte altre. Ad esempio, vi è una dimensione sociale legata ai temi di etica; una politica dovuta all’interferire parlamentare; una finanziaria dettata dalla perdita di contratti; e una che riguarda gli stakeholders, gli stessi clienti che l’hanno abbandonata.

Nonostante sia Carnevale a casa Ferragni, la vera questione gravita intorno al brand e alla governance. L’esperto ha esplicato: la crisi di un impiegato avrebbe avuto meno impatto. In questo caso, la crisi tocca il brand che porta lo stesso nome di Ferragni. Il problema residuo è l’attenzione morbosa che si è creata attorno a Ferragni, che proiettava un successo patinato in maniera prepotente. Quando però, tale successo si trasforma in furto etico, non si perdona facilmente.

Nonostante Ferragni abbia cercato di porre rimedio con un video di scuse, la mossa non ha dato i frutti sperati. In queste situazioni, la priorità è minimizzare il danno il più possibile. Il video di scuse era necessario, ma la messa in scena è stata errata. Ora, per recuperare affari e immagine, si è affidata a un team di due studi legali e uno di comunicazione.

Il caso Ferragni è la prima crisi che colpisce tanto fortemente una influencer, tra le più in vista del panorama. La discussione si è allargata velocemente e ha portato alla luce molte problematiche legate al lavoro degli influencer ed alle regole che gli stessi devono seguire. Il problema non è quindi solo legislativo, ma sociale. Infatti, per Andrea Barchiesi, stiamo parlando di un sistema di valori molto più ampio e di una crisi generazionale che induce a riflettere sul ruolo delle figure influenti.

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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