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Bimbo di Ladispoli sospeso per 20 giorni per iperattività: potrà tornare a scuola

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Bimbo di Ladispoli sospeso per 20 giorni per iperattività: potrà tornare a scuola

Un bambino di sei anni è stato sospeso dalla scuola perché è stato considerato iperattivo dal preside di un istituto comprensivo di Ladispoli. Secondo il preside, il bambino non avrebbe potuto frequentare le lezioni per 21 giorni, dal 28 febbraio al 21 marzo. Tuttavia, il Tar del Lazio ha accolto il ricorso dei genitori e ha annullato la sospensione. Dopo la decisione dei giudici, la famiglia ha accompagnato il bambino a scuola, ma il preside non lo ha fatto entrare il primo marzo.

Il preside si è giustificato dicendo di non aver fatto entrare il bambino a scuola perché ancora non gli era stata notificata la decisione del Tar. Tuttavia, una volta letta la sentenza, ha dato disposizioni affinché il bambino potesse rientrare in classe. Il preside ha spiegato che la famiglia del bambino sembra considerare la scuola come un servizio di babysitteraggio e non sembra preoccuparsi del fatto che altri bambini non possano imparare a leggere e scrivere a causa della situazione della classe.

Secondo il preside, il bambino riceve assistenza da un Oepac per due ore al giorno e la classe ha anche un’ora di docente di sostegno. Tuttavia, il preside ha sottolineato che non è stata consegnata alla scuola nessuna documentazione riguardante la situazione del bambino. La Legge 104 riconosce la condizione di handicap a chi non ha ancora compiuto 18 anni senza specificare il grado di gravità. Il preside ha dichiarato che il bambino ha ottenuto una certificazione che indica una situazione più grave di quanto precedentemente segnalato, ma questa documentazione non è mai stata consegnata alla scuola.

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Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

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Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

Di fronte all’annuncio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di estendere il divieto dell’uso dei cellulari anche agli studenti delle scuole superiori a partire dal prossimo anno scolastico, l’opinione pubblica si spacca: da un lato c’è chi accoglie con favore la misura, considerandola una necessaria inversione di rotta per ridare centralità alla didattica, dall’altro lato, non mancano le critiche: è davvero questo il modo giusto per affrontare il problema?

Valditara parla di un “intervento improcrastinabile”, giustificato dagli “effetti negativi ampiamente dimostrati dalla ricerca scientifica”. In effetti, numerosi studi hanno messo in luce il legame tra l’uso eccessivo degli smartphone e cali di attenzione, peggioramento del rendimento scolastico, aumento dell’ansia e disturbi del sonno.

Tuttavia, vietare l’utilizzo degli smartphone in classe può sembrare un approccio troppo rigido, quasi punitivo. Non tutti gli studenti usano il cellulare per distrarsi: alcuni lo sfruttano come strumento di studio, per cercare informazioni, tradurre testi, accedere a materiali didattici. Bandirlo in modo assoluto rischia di mandare un messaggio sbagliato: lo smartphone è un nemico, e non un mezzo da imparare a gestire.

Forse è proprio qui il nodo centrale della questione: educare, piuttosto che proibire. In un mondo in cui la tecnologia penetra ogni aspetto della vita quotidiana e lavorativa, non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi un uso consapevole e responsabile degli strumenti digitali? Imparare a staccarsi dallo schermo, a concentrarsi, a distinguere tra tempo utile e tempo perso, è una competenza fondamentale tanto quanto la grammatica o la matematica.

Inoltre, c’è da chiedersi quanto il divieto sarà davvero applicabile e quanto sarà efficace. Chi controllerà? Con quali sanzioni? Non si rischia di creare solo tensione tra docenti e studenti, senza risolvere il problema alla radice?

Il provvedimento annunciato dal ministro Valditara ha il merito di rimettere al centro il valore del tempo scolastico e l’urgenza di affrontare la questione del digitale tra i giovani. Tuttavia, un vero cambiamento culturale richiede più di un semplice divieto: serve un’educazione digitale integrata, una collaborazione tra scuola e famiglia, e una riflessione collettiva su che tipo di cittadini vogliamo formare.

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Transfobia dopo il Pride: un’aggressione che svela l’altra faccia di Roma

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Transfobia dopo il Pride: un’aggressione che svela l’altra faccia di Roma

Mentre le strade di Roma risuonavano ancora di musica, canti e slogan del Pride, un episodio vergognoso ha ricordato a tutti quanto sia ancora lunga la strada verso una reale inclusione: sabato 14 giugno, intorno alle 19:40, subito dopo la fine del Roma Pride, che ha visto la partecipazione di oltre 200.000 persone, una donna trans è stata aggredita nei pressi della stazione Laurentina della linea B della metropolitana.

Secondo quanto denunciato da Gay Help Line, la vittima è stata bersagliata da insulti transfobici e poi inseguita da un uomo. Le frasi urlate “Frocio!”, “Si vede che sei un uomo!” sono lo specchio di un odio che continua a diffondersi nella nostra società, anche quando i riflettori delle grandi manifestazioni si spengono. Fortunatamente, alcuni passanti sono intervenuti, permettendo alla donna di mettersi in salvo su un autobus.

Il servizio di supporto Gay Help Line, che ha ricevuto la segnalazione attraverso il numero verde 800 713 713, lancia ora un appello a chiunque fosse presente in quel momento alla fermata: servono testimonianze, immagini, qualunque elemento possa aiutare a identificare l’aggressore.

In una città che poche ore prima celebrava l’amore, la libertà e la diversità, è inaccettabile che un’aggressione del genere possa accadere in pieno giorno, in un luogo pubblico, tra l’indifferenza di molti.

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