Attualità
Bambini col velo in vetrina: si può chiamare indottrinamento?

Nella vetrina di un negozio nel cuore di Bruxelles sono apparsi manichini , di adulti e bambini, vestiti con abiti tradizionali islamici, hijab compresi. Una scena che ha fatto discutere: c’è chi ha visto in quell’immagine un segno di integrazione e chi, invece, non l’ha presa bene.
La domanda da porsi è semplice: stiamo celebrando la diversità o ci stiamo piegando ad una visione che contrasta i valori laici dell’Europa?
L’hijab non è un semplice capo d’abbigliamento. Per molti è un simbolo religioso identitario; per altri, una manifestazione visibile di una visione patriarcale della società. Quando questo simbolo viene rappresentato su un manichino bambino, si tocca una corda particolarmente sensibile: si apre il dibattito sull’infanzia e sulla libertà di scelta. Un bambino non sceglie la propria religione né il proprio abbigliamento. Se quindi un negozio europeo espone un manichino infantile velato, non si sta forse normalizzando un’imposizione?
Siamo in un’epoca in cui l’inclusività è parola d’ordine, se il messaggio è davvero interculturale, perché non vedere mai, nei paesi a maggioranza islamica, manichini vestiti all’occidentale con minigonne o top scollati? Perché l’apertura deve sempre e solo andare in una direzione?
Bruxelles è la capitale dell’Europa in cui esporre simboli religiosi forti in un contesto secolare non è un gesto neutro, soprattutto quando tali simboli sono al centro di controversie globali sulla libertà femminile, sull’infanzia e sulla libertà di culto.
Con questo, anche Roma è uno specchio dei cambiamenti in corso: in particolare la zona Est della Capitale, come Torpignattara, Centocelle, Quarticciolo e Prenestina, che vive da anni una trasformazione socioculturale silenziosa, spesso ignorata dalla politica e dai media. Qui la multiculturalità è realtà quotidiana: le comunità islamiche sono radicate e visibili, con negozi, scuole religiose, e simboli che diventano parte del paesaggio urbano.
Il problema non è il velo in sé, ma il suo significato in un dato contesto: in Europa, dovrebbe valere il principio per cui ogni individuo ha diritto alla propria fede, ma anche alla libertà dalla religione. Se invece la società, per evitare accuse di islamofobia, comincia a rendere intoccabili certi simboli, si crea uno squilibrio culturale.
La vetrina dei manichini velati a Bruxelles è più di una scelta di marketing, è un indicatore di come l’Europa stia cercando, spesso confusamente, di conciliare tolleranza e identità. Difendere la libertà religiosa è importante, ma lo è anche interrogarsi su dove finisce l’inclusione e dove comincia la rinuncia ai valori della nostra società: laicità, libertà individuale e parità di genere. Se questi diventano tabù, allora il manichino non è più solo un modello in vetrina: è il riflesso di una società che ha paura di difendersi.
Attualità
Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

Di fronte all’annuncio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di estendere il divieto dell’uso dei cellulari anche agli studenti delle scuole superiori a partire dal prossimo anno scolastico, l’opinione pubblica si spacca: da un lato c’è chi accoglie con favore la misura, considerandola una necessaria inversione di rotta per ridare centralità alla didattica, dall’altro lato, non mancano le critiche: è davvero questo il modo giusto per affrontare il problema?
Valditara parla di un “intervento improcrastinabile”, giustificato dagli “effetti negativi ampiamente dimostrati dalla ricerca scientifica”. In effetti, numerosi studi hanno messo in luce il legame tra l’uso eccessivo degli smartphone e cali di attenzione, peggioramento del rendimento scolastico, aumento dell’ansia e disturbi del sonno.
Tuttavia, vietare l’utilizzo degli smartphone in classe può sembrare un approccio troppo rigido, quasi punitivo. Non tutti gli studenti usano il cellulare per distrarsi: alcuni lo sfruttano come strumento di studio, per cercare informazioni, tradurre testi, accedere a materiali didattici. Bandirlo in modo assoluto rischia di mandare un messaggio sbagliato: lo smartphone è un nemico, e non un mezzo da imparare a gestire.
Forse è proprio qui il nodo centrale della questione: educare, piuttosto che proibire. In un mondo in cui la tecnologia penetra ogni aspetto della vita quotidiana e lavorativa, non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi un uso consapevole e responsabile degli strumenti digitali? Imparare a staccarsi dallo schermo, a concentrarsi, a distinguere tra tempo utile e tempo perso, è una competenza fondamentale tanto quanto la grammatica o la matematica.
Inoltre, c’è da chiedersi quanto il divieto sarà davvero applicabile e quanto sarà efficace. Chi controllerà? Con quali sanzioni? Non si rischia di creare solo tensione tra docenti e studenti, senza risolvere il problema alla radice?
Il provvedimento annunciato dal ministro Valditara ha il merito di rimettere al centro il valore del tempo scolastico e l’urgenza di affrontare la questione del digitale tra i giovani. Tuttavia, un vero cambiamento culturale richiede più di un semplice divieto: serve un’educazione digitale integrata, una collaborazione tra scuola e famiglia, e una riflessione collettiva su che tipo di cittadini vogliamo formare.
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