C’è qualcosa di profondamente ingiusto nel silenzio che circonda la guerra a Gaza. Ogni giorno arrivano notizie di bombardamenti, morti, bambini sotto le macerie e ospedali distrutti. Ogni giorno vediamo immagini che dovrebbero scuotere il mondo.
È invece? La politica resta quasi muta, come se tutto questo fosse inevitabile, lontano, oppure troppo complicato per essere affrontato davvero.
Ma cosa c’è di complicato nella morte di civili innocenti? Cosa c’è da giustificare quando interi quartieri vengono rasi al suolo e mancano di cibo, acqua, medicine? La politica internazionale fa grandi discorsi sulla pace e sui diritti umani, ma quando si tratta di Gaza spesso sceglie di guardare altrove. Si usano parole vaghe, si rimanda tutto a un “contesto”, si parla di “difesa” e di “equilibri”, ma intanto la gente continua a morire. Non prendere posizione in questi casi non è neutralità: è complicità. Non dire niente vuol dire accettare che accada ancora, ancora, e ancora.
Ci sono voci che si alzano, certo: cittadini, giornalisti, volontari epersone comuni che non riescono più a stare zitte. Ma chi ha davvero il potere di fermare tutto questo? I governi, le istituzioni internazionali. Ed è lì che il silenzio fa più male. È lì che manca il coraggio. Restare in silenzio davanti all’ingiustizia non è mai una scelta neutrale. È sempre una forma di abbandono. Oggi, più che mai, serve una politica che abbia il coraggio di guardare la verità, anche quando è scomoda. Perché il silenzio non salverà Gaza. Ma potrebbe condannare la nostra coscienza.
E noi, da che parte vogliamo stare?
