Mondo
Rivolta Wagner, Prigozhin attacca la Russia: “Bugie su guerra e negoziati”
Rivolta Wagner, le durissime parole del capo dei mercenari contro i vertici militari del Cremlino

Rivolta Wagner, gli alleati ora diventano nemici. Al termine di un’escalation durata mesi, ai danni in particolare il numero uno della Difesa Shoigu, nella notte c’è stata la rottura. Ad annunciarla, in un video su Telegram, il capo della banda impegnata con i soldati di Mosca nell’operazione speciale in Ucraina, Yevgeny Prigozhin. Il quale ha accusato apertamente il Cremlino di aver mentito sui motivi dell’invasione e sugli attacchi a Mosca orditi da Kiev e Nato.
Parole che la brigata ha poi tradotto in fatti occupando siti militari a Rostov e tentando un colpo di Stato. “Distruggeremo tutto ciò che ci circonda – avverte Prigozhin – Non potete distruggerci. Abbiamo degli obiettivi e siamo tutti e 25mila pronti a morire“. A suo avviso, i vertici militari starebbero ingannando il popolo russo, sottolineando che si sarebbe potuto evitare il conflitto negoziando con Zelensky. Il quale, spiega poi, non pensava di lanciare, nel febbraio 2022, un’offensiva sui territori russi nell’Ucraina orientale.
“Kiev – rivela – per 8 anni non ha mai bombardato il Donbass, ma solo le posizioni russe. L’operazione speciale è stata avviata per un motivo completamente diverso da quello che il Ministero della Difesa ha prospettato all’opinione pubblica e a Putin“. Secondo Prigozhin, gli oligarchi russi avrebbero voluto mettere alla presidenza dell’Ucraina Viktor Medvedchuk, un politico ucraino vicino al numero uno del Cremlino. E ha definito l’inizio dell’invasione “una operazione progettata in modo incompetente“.
Inoltre ha parlato di un decreto, preparato prima dell’inizio della guerra, per dare a Shoigu una seconda stella di ‘eroe della Russia’. Una promozione, di cui il generale non avrebbe le prove, ma che pone tra le basi dell’aggressione all’Ucraina. In un altro post, riportato da Meduza, Prigozhin ha accusato lo stesso Ministro della Difesa e il Capo di Stato Maggiore Gerasimov di “genocidio del popolo russo, assassinio di migliaia di cittadini russi e del conferimento al nemico di territorio russo“.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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