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NUOVA ZELANDA Attentati in due moschee a Christchurch: è strage

NUOVA ZELANDA Attentati in due moschee a Christchurch: è strage.
NUOVA ZELANDA Attentati in due moschee a Christchurch. “Uno dei giorni più bui” per il Paese, come l’ha definito la premier Arden. Azioni di una violenza estrema e senza precedenti. Il bilancio, secondo quanto comunica il capo della polizia, parla di 49 morti e decine di feriti ricoverati negli ospedali della zona. Un dato che potrebbe aggravarsi ancora.
“I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno a coloro che sono stati colpiti oggi”, ha detto la premier. Fonti sanitarie riferiscono di decine di persone ricoverate per ferite da arma da fuoco. Al momento della sparatoria, infatti diverse centinaia di persone erano radunate nella moschea di al Noor per la preghiera del venerdì.
Ancora sconosciuta la dinamica dell’episodio, avvenuto nelle due moschee di Al-Noor e Linwood. Sono stati inoltre disinnescati dalla polizia un certo numero di ordigni esplosivi improvvisati trovati in alcuni veicoli parcheggiati nei pressi delle moschee. Arrestati tre uomini e una donna. Uno degli uomini armati sarebbe un cittadino australiano, Brenton Tarrant, 28 anni. Proprio lui avrebbe dichiarato in un ‘manifesto’ le sue intenzioni, poi rivendicate con motivazioni anti-immigrati. Degli arrestati nessuno faceva comunque parte della lista dei sospetti terroristi della polizia.
Sui caricatori delle armi usate per la strage era inciso il nome di Luca Traini, 28enne di Tolentino che il 3 febbraio del 2018 sparò agli immigrati a Macerata. Tra i nomi presenti anche quello di Alexandre Bissonette, 29enne che nel 2017 uccise sei persone nella moschea di Quebec City, e di Sebastiano Venier, il Doge veneziano che sconfisse i turchi nella battaglia di Lepanto nel 1571.
“Molte delle persone colpite da questo atto di estrema violenza saranno della nostra comunità di migranti e rifugiati. La Nuova Zelanda è la loro casa, dovrebbero essere al sicuro”. Così premier neozelandese, Jacinda Ardern, ha commentato gli attentati, definiti “uno straordinario e senza precedenti atto di violenza”
Secondo un testimone, Ahmad al Mahmooud, l’assalitore sarebbe un uomo bianco, biondo, che indossava un elmetto e giubbotto anti-proiettile ed era armato con un fucile automatico. Subito dopo l’episodio, la polizia per precauzione ha chiuso scuole e l’ospedale cittadino. In quest’ultimo sono stati annullati tutti gli appuntamenti del pomeriggio, comunicando che nessun paziente o dipendente poteva entrare o uscire dall’edificio.
“Sentivo le urla strazianti dei tanti colpiti a morte. Sono rimasto immobile, pregando Dio di essere risparmiato. I killer hanno ucciso alla mia destra e alla mia sinistra. Poi si sono spostati nella stanza dove pregavano le donne e da lì sono arrivate altre urla che non riesco a dimenticare. Siamo fuggiti in massa, coperti di sangue…” racconta all’Afp uno dei sopravvissuti.
La polizia della Nuova Zelanda invita a non condividere il link del video di 17 minuti della strage, girato e postato in diretta su Facebook da uno degli assalitori. “Stiamo lavorando perché venga rimosso”, l’immediato post della polizia su Twitter. Il video è stato rimosso pochi minuti più tardi.
Il capo della polizia ha poi lodato “il grande coraggio” degli agenti che hanno arrestato i sospetti fermati a bordo di auto dove erano stati posizionati diversi ordigni esplosivi improvvisati.
Agli attentati è sopravvissuta fortunatamente anche la squadra nazionale di cricket del Bangladesh, grazie ad un ritardo in una conferenza stampa. Secondo la Bbc, la squadra si stava allenando vicino a una delle due moschee quando i giocatori sono stati avvertiti dell’accaduto e si sono rifugiati in un parco adiacente. Secondo fonti dal Bangladesh, la squadra avrebbe dovuto partecipare alla preghiera del venerdì ma stava aspettando l’arrivo di alcuni giocatori provenienti da una conferenza stampa, che era iniziata in ritardo.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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