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Gaza, attacco di Israele al campo profughi nel silenzio omertoso della comunità internazionale

Attacco aereo nel campo profughi di Al Maghazi a Gaza: Oltre 70 vittime civili

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Gaza, attacco nella notte al campo profughi di Al Maghazi: piu di 70 vittime civili – Vatican News

Mondo – La notte tra il 24 e il 25 dicembre è stata segnata da un violento attacco dell’esercito israeliano sia nel nord che nel centro della Striscia di Gaza. Droni e aerei di Tel Aviv hanno colpito direttamente il campo profughi di Al Maghazi, causando morte e terrore. Secondo il ministero della Sanità della Striscia, il numero delle vittime potrebbe aumentare, considerando che nel campo abitano molte famiglie. Costruito nel 1949, il campo ospita circa 30 mila persone e dispone di sole 8 scuole e un ambulatorio. Oltre all’attacco a Maghazi, sono stati segnalati raid israeliani nelle vicine zone di Khan Younis e Rafah, al confine con l’Egitto.

I combattimenti non accennano a diminuire e sono stati segnalati anche lanci di missili dal Libano. Al Jazeera riporta almeno 100 morti a causa degli attacchi israeliani. Gli israeliani stanno spingendo la popolazione verso presunte “zone sicure”, ma in realtà nessuna zona sembra essere al sicuro dagli attacchi. I feriti faticano a raggiungere l’ospedale più vicino, e la situazione umanitaria sta peggiorando, con carenza di acqua e cibo.

L’esercito israeliano ha avviato un’indagine sull’attacco aereo a Al Maghazi e ha invitato la popolazione del centro della Striscia a sgombrare le zone di combattimento. Secondo il portavoce militare israeliano Avichay Adraee, le zone più a rischio sono Khan Younis e Sallah-a-Din, e ha indicato percorsi alternativi per l’evacuazione sulla costa.Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, rilascia un nuovo messaggio dopo gli attacchi israeliani del 7 ottobre, dichiarando che i combattenti del gruppo hanno inflitto pesanti perdite alle forze israeliane. Sinwar afferma che le Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno attaccato almeno 5.000 soldati israeliani, uccidendone un terzo e distruggendo 750 mezzi militari. Queste cifre contrastano con il bollettino ufficiale delle forze israeliane. Sinwar conclude che non si sottometterà “alle condizioni” israeliane per la fine delle ostilità.

La situazione in Israele è tesa, con crescenti commenti riguardanti il rischio di una sconfitta militare. Nonostante la promessa del premier Netanyahu di “sconfiggere totalmente Hamas”, il gruppo islamista ha continuato a lanciare razzi verso Tel Aviv. L’Egitto ha proposto una tregua che prevede il cessate il fuoco in cambio della liberazione degli oltre 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, inclusi donne soldato israeliane. Tuttavia, la quantità esatta di ostaggi ancora in vita non è chiara, poiché alcuni sono stati trovati morti in un tunnel di Hamas bombardato.

Al confine con il Libano, le tensioni tra Israele e gli Hezbollah libanesi sono aumentate, con numerose strade chiuse al traffico nel nord di Israele. L’esercito israeliano ha confermato raid aerei sul sud del Libano contro obiettivi di Hezbollah. Questi eventi hanno portato molte persone che vivevano vicino alla linea di confine con il Libano a lasciare le proprie case.

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L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

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L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.

È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.

Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.

In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.

Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.

Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.

L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.

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Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

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Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.

La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.

Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.

L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.

Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.

La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.

Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.

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