Mondo
Zara, dopo le polemiche ritira la campagna pubblicitaria con i manichini che ricordano i morti di Gaza
Zara, dopo le polemiche ritira la campagna pubblicitaria con i manichini che ricordano i morti di Gaza

Dopo le polemiche, Zara ha deciso di ritirare la campagna pubblicitaria che raffigura una serie di manichini avvolti in sacchi di plastica: per molti utenti sui social questi sarebbero un riferimento ai cadaveri di Gaza.
A poche ore di distanza dalla polemica scoppiata sui social, Zara ha deciso di ritirare la campagna pubblicitaria per la collezione The Jacket.
Il servizio fotografico per la quarta collezione di Zara Atelier ha come protagonista la modella Kristen McMenamy, circondata da una serie di manichini avvolti in buste di plastica bianche.
A far scatenare l’hashtag #boycottZara (“boicotta Zara”) sui social è stato il presunto riferimento ai morti di Gaza contenuto nella campagna.
L’accusa che ha fatto il giro dei social riguardava la scelta, secondo molti infelice e indelicata, di aver posizionato intorno alla modella dei manichi avvolti in sacchi di plastica bianchi. Questa immagine ricorderebbe i tradizionali sudari bianchi nei quali vengono avvolti i cadaveri dei civili a Gaza a partire dal 7 ottobre, ossia da quando è in atto una crisi umanitaria senza precedenti.
Uno scatto della campagna The Jacket In queste ore Zara ha pubblicato sui propri profili social un post in cui annuncia il ritiro della campagna The Jacket e si giustifica per il “malinteso” che si è verificato.
Come si legge nel post, la campagna è stata ideata a luglio, sotto la direzione artistica di Baron&Baron, ed è stata scattata dal fotografo Tim Walker a settembre, dunque molto prima dello scoppio del conflitto tra Israele e Hamas.
“La campagna presenta una serie di immagini di sculture incompiute nell’atelier di uno scultore ed è stata creata con l’unico scopo di mettere in mostra capi artigianali all’interno di un contesto artistico”, scrive Zara.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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