Mondo
Il tribunale della Aja accusa Israele ‘E’ genocidio’
L’accusa di genocidio a Israele apre l’udienza all’Aja
Un’accusa di genocidio nei confronti di Israele da parte del Sudafrica ha dato il via a un’udienza all’Aja, l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite. L’accusa ha presentato le proprie argomentazioni sostenendo che Israele viola la Convenzione contro il genocidio e chiedendo alla Corte di imporre “misure cautelari” vincolanti. Israele ha respinto le accuse definendole “infondate”.
La delegazione sudafricana, composta da diplomatici, avvocati ed esponenti politici internazionali come Jeremy Corbyn, accusa Israele di commettere atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza. Per il Sudafrica, Israele viola la Convenzione contro il genocidio ratificata nel 1950 e non adempie ai suoi obblighi di prevenire il genocidio. Il Sudafrica chiede alla Corte di imporre “misure cautelari” quali ordinare a Israele di cessare le uccisioni e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari nella Striscia.
Israele ha respinto le accuse definendole “infondate”, anticipando che la causa intentata dal Sudafrica è “atroce e assurda”. Al fianco di Israele si sono schierati gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, criticando la mossa sudafricana. Mentre il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, e il suo partito sostengono la causa palestinese, paragonandola alla lotta contro l’apartheid.
La decisione del Sudafrica di ricorrere alla Corte internazionale è stata giudicata come un dovere morale e una questione di principio. Alcuni analisti ipotizzano che la decisione sia stata influenzata dalla necessità di riguadagnare consensi in vista delle elezioni generali del 2024 e di aumentare la propria influenza a favore del Sud globale. La discussione delle argomentazioni si è svolta in due udienze pubbliche al Palais de la Paix dell’Aja, e le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. La vicenda continua ad avere un forte impatto e a sollevare polemiche a livello internazionale. Fonte
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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