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Diletta Leotta e la pubblicità U-Power: quando la pubblicità oltrepassa il limite

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Diletta Leotta e la pubblicità U-Power: quando la pubblicità oltrepassa il limite

C’è qualcosa che fa più rumore del silenzio: il disagio. Davanti allo spot pubblicitario U-Power con Diletta Leotta, andato in onda e poi sospeso, molti hanno provato proprio questo.

Diletta, bravissima, bellissima e libera di fare quello che vuole, ma perché deve sempre essere il suo corpo al centro? Perché la donna deve ancora oggi essere il “trucco” per vendere qualsiasi cosa, anche delle semplicissime scarpe da lavoro? Ma il lavoro qui non c’entra.

Diletta non è il problema. È lo specchio di un sistema che continua a raccontare il corpo femminile come qualcosa da esibire, non da ascoltare. Un corpo che serve a colpire, non a parlare.

Finché la comunicazione userà le donne così, con lo sguardo maschile a fare da regista, continueremo a confondere libertà con esposizione e sensualità con mercificazione.

L’idea di usare lo sguardo di un bambino per raccontare il desiderio adulto è ancora peggio. È mischiare l’innocenza con l’ammiccamento, e fa rabbrividire. Come possiamo accettare che uno sguardo innocente venga usato in questo modo, come se fosse naturale associare l’ammirazione di un bambino a un corpo femminile in mostra? È un messaggio pericoloso, che nasconde l’innocenza e fa passare per normale qualcosa che normale non è: la sessualizzazione, anche indiretta, di un bambino. Perché dobbiamo farlo passare come se fosse solo una “provocazione” pubblicitaria, quando invece è un abuso della sua purezza?

Nessuno spot nasce per caso. Dietro ci sono creativi, dirigenti, approvazioni…possibile che nessuno abbia avvertito quel senso di disagio? Possibile che nessuno si sia chiesto: “È questo il messaggio che vogliamo dare?”

Non è una discorso moralista, è una richiesta di sensibilità, di rispetto per i bambini, per le donne, per le persone che ogni giorno vedono la loro immagine manipolata, strumentalizzata e svuotata di senso.

In un’epoca in cui l’opinione pubblica è, giustamente, più attenta alla rappresentazione delle donne, dei bambini e delle minoranze, leggerezze del genere non possono accadere.

Il confine tra provocazione e irresponsabilità è sottile, ma esiste. E andrebbe rispettato.

Questo è intrattenimento travestito da marketing, è l’ennesimo tentativo di far parlare con un messaggio provocatorio. Tutto questo funziona, si, fa parlare. Ma a che prezzo?

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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