Mondo
Coronavirus In Francia la prima vittima in Europa

Coronavirus In Francia la prima vittima in Europa: ecco di chi si tratta.
Coronavirus In Francia la prima vittima in Europa. La mannaia dell’epidemia inizia dunque ad abbattersi anche fuori dall’Asia, epicentro del Covid-19. A rendere nota la notizia la ministra della Salute francese Agnes Buzyn.
Si tratta – riporta France Presse – di un turista di 80 anni, ricoverato da fine gennaio in terapia intensiva. Le sue condizioni — ha spiegato la ministra — «sono peggiorate rapidamente: da qualche giorno era in condizioni critiche».
Al momento sono oltre 67 mila i contagiati, con oltre 1500 vittime, di cui quattro fuori dalla Cina. 1380, riferiscono le autorità sanitarie, le morti in Cina, insieme a oltre 66 mila casi, registrati soprattutto nella provincia di Hubei. Di questi, 51, e un decesso, sono avvenuti a Hong Kong. 251 episodi invece in Giappone, di cui 218 (con 1 decesso) a bordo della nave da crociera ormeggiata a Yokohama. Seguono Singapore con 58, Thailandia 33 e Corea del Sud 28. Una vittima anche per gli Stati Uniti, un cittadino americano morto in Cina. Quanto all’Europa, 16 i casi in Germania, in Francia 11 (con un decesso), nel Regno Unito 9, in Italia 3, in Russia e Spagna 2 e 1 in Belgio, Svezia e in Finlandia. 3 casi, incluso un decesso, infine registrati nelle Filippine. Ed è notizia di ieri del primo episodio confermato nel continente africano, in Egitto
Intanto in Cina, va avanti da tre settimane l’isolamento della provincia dell’Hubei, epicentro dell’epidemia. Misure drastiche anche a Pechino, dove il Gruppo guida municipale ha deciso che chi rientra in città dovrà sottoporsi ad autoquarantena di 14 giorni. «Chi non si adegua sarà responsabile davanti alla legge». Nella Capitale — riporta la Afp — moltissime attività restano sospese, e diverse aziende hanno imposto ai propri dipendenti di utilizzare il telelavoro.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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