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Caso Willy Duarte, la bella vita degli imputati a spese dello Stato

In corso le indagini dei Carabinieri per gli accertamenti sulla reale situazione economica dei fratelli Bianchi e del resto della banda: tutti percepivano il reddito di cittadinanza
Abiti griffati, orologi d’oro, macchine da 70mila euro. E ancora post su Instagram dove si fanno immortalare in hotel di lusso nelle zone più in della Penisola. Sembrerebbe uno stile di vita da persona molto abbiente quello che ostentavano i fratelli Bianchi sui loro social. Un dato che sembra contraddire palesemente la loro situazione reddituale dichiarata, ossia quella di “nullatenenti”. Al punto da ottenere il reddito di cittadinanza. Come loro anche il resto della banda coinvolta nel caso dell’omicidio Duarte: oltre a loro due infatti, anche Francesco Belleggia e Mario Pincarelli percepivano il reddito di cittadinanza attraverso i loro capi famiglia, che li hanno dichiarati come familiari a carico, senza reddito.
Gli accertamenti eseguiti dalla Guardia di Finanza di Colleferro
Dai controlli eseguiti risulta che nell’insieme il gruppo abbia percepito dallo Stato una somma di circa 33mila euro. Di questi 28.747 mila euro devono essere recuperati in quanto ingiustamente percepiti. Questo il risultato degli accertamenti patrimoniali eseguiti dalla Guardia di Finanza di Colleferro che li ha denunciati e segnalanti all’Inps, che dovrà ora recuperare quella cifra. Sotto accusa anche alcune lacune nella compilazione dei moduli per la richiesta, che avrebbero facilitato da parte loro l’ottenimento del reddito di cittadinanza. Gli imputati intanto tramite i loro avvocati negano fermamente di averlo mai ricevuto, e anzi dichiarano di non sapere neanche di cosa tratti e di non averne fatto richiesta.
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Femminicidio e responsabilità: il vero problema non è l’età della vittima, ma la cultura che giustifica la violenza

Di fronte all’ennesimo femminicidio che coinvolge una giovanissima ragazza, Martina Carbonaro, 14 anni, brutalmente uccisa dall’ex fidanzato 19enne, la società intera dovrebbe fermarsi a riflettere sul perché queste tragedie si ripetano, e su cosa davvero alimenti questa spirale di violenza. Invece, ancora una volta, parte del dibattito si sposta su terreni sbagliati e pericolosi, come dimostrano le dichiarazioni del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca.
Durante un evento pubblico, De Luca ha espresso perplessità sul fatto che Martina fosse fidanzata da quando aveva 12 anni, definendolo «un problema», e ha poi invitato a «un po’ di prudenza» da parte delle ragazze, perché «nel mondo ci sono anche persone con disturbi». Parole che, pur nella loro apparente razionalità paternalistica, finiscono per spostare l’attenzione dalla responsabilità dell’aggressore al comportamento, o meglio alla libertà, della vittima.
Ciò che è davvero “un problema” non è il fatto che una dodicenne abbia un fidanzato (un fenomeno che, per quanto possa sollevare legittime domande educative o genitoriali, non può mai essere la causa né la giustificazione di un omicidio). Il problema è che un ragazzo di 19 anni ritenga accettabile usare la violenza per “punire” una ragazza che ha deciso di lasciarlo. Il problema è che questa violenza venga ancora oggi spiegata, e in alcuni casi implicitamente giustificata, con argomenti che mettono in discussione le scelte, l’abbigliamento, le relazioni o l’età delle vittime.
Le parole di De Luca rientrano in un copione noto: quello della responsabilizzazione implicita della donna. È una narrazione pericolosa perché normalizza l’idea che le ragazze debbano “stare attente”, “essere prudenti”, “non provocare”, mentre agli uomini, anche quando sono violenti, instabili o possessivi, si continua a concedere una sorta di alibi culturale, psicologico o sociale. Un rappresentante delle istituzioni, per quanto animato da preoccupazioni educative o morali, non può alimentare un discorso che rischia di suonare come “se l’è cercata”. Dire a una ragazza di essere più prudente perché “ci sono uomini disturbati” non è protezione: è una resa alla violenza.
L’educazione al rispetto, all’affettività, alla gestione dei conflitti, deve essere rivolta innanzitutto ai ragazzi, agli uomini. Il problema strutturale è il maschilismo che trasforma l’amore in possesso, il rifiuto in sfida, e la libertà femminile in colpa.
Serve un impegno radicale per cambiare il modo in cui le nuove generazioni comprendono i rapporti, le emozioni, i limiti. Serve una presa di posizione netta contro ogni tentativo di deresponsabilizzazione degli aggressori. Perché finché continueremo a discutere della condotta della vittima più che della brutalità dell’assassino, continueremo a vivere in una società che non protegge davvero le sue donne.
E questo, davvero, è il problema.
Attualità
Alessandro Gassmann, schiacciato dal peso della fortuna

C’è chi si sveglia la mattina con l’ansia per il mutuo, chi con il dubbio se il contratto verrà rinnovato, chi con la macchina da portare dal meccanico…poi c’è Alessandro Gassmann, che apre gli occhi con “senso di colpa e leggermente schifato” dalla propria fortuna. L’ha detto davvero, in una delle sue riflessioni a cuore aperto, mentre parlava del film Mani Nude e della sua interpretazione in una società “violenta, aggressiva e maleducata”.
Che disperazione essere il figlio di due persone intelligenti, aver imparato tanto dal padre, avere talento, successo, e visibilità.
Ma non fraintendete: lui vive cercando di meritarsi questa fortuna.
Nel frattempo, là fuori, il Paese reale continua a fare i conti con stipendi da fame, ma non con la stessa intensità emotiva con cui Gassmann affronta il peso del privilegio. Perché, diciamocelo, non tutti hanno il coraggio di affrontare la vita col senso di colpa del benestante.
L’unico vero problema dell’Italia è la fortuna di Alessandro Gassmann, gli è capitata, e adesso vive in lotta con questo privilegio, portando sulle spalle non solo il cognome, ma anche il dolore di essere nato dalla parte giusta della barricata.
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