Mondo
Hamas detta le condizioni sugli ostaggi di Israele

Hamas e le richieste per il rilascio degli ostaggi in Israele
Il gruppo terroristico Hamas ha dichiarato che gli ostaggi detenuti a Gaza non saranno rilasciati fino a quando non verranno accettate le condizioni imposte da loro stessi. Queste richieste includono la cessazione totale delle ostilità nella Striscia di Gaza. L’ufficio politico di Hamas, rappresentato da Osama Hamdan, ha anche menzionato il procedimento per genocidio che si aprirà all’Aja contro Israele, chiedendo che la Corte internazionale di giustizia non ceda alle pressioni dell’amministrazione americana.
I leader di Hamas non saranno esiliati dalla Striscia di Gaza
Hamdan ha anche respinto le voci riguardanti un possibile accordo che prevederebbe l’esilio dei leader di Hamas dalla Striscia di Gaza in cambio di un cessate il fuoco permanente. Ha sottolineato che “non ci saranno iniziative se non si parla della fine totale della guerra”.
Localizzato tunnel dove erano tenuti gli ostaggi
Le forze israeliane hanno confermato di aver localizzato un tunnel nella zona di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dove erano tenuti gli ostaggi di Hamas. Il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce delle Idf, ha affermato che le operazioni si stanno svolgendo con determinazione e che sono stati trovati gli ostaggi in condizioni difficili sotto terra.
Inviata Onu in Israele e Cisgiordania
Pramila Patten, rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti, si recherà in Israele e in Cisgiordania per raccogliere informazioni sulle accuse di stupri commessi da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre. L’obiettivo della missione sarà incontrare sopravvissuti, testimoni e altri colpiti dalla violenza sessuale per identificare i modi per sostenerli, nonché incontrare ostaggi e detenuti rilasciati di recente.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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