Attualità
Campiti urlava ammazzo tutti.

Carabinieri testimoniano su quanto accaduto
In aula sono stati ascoltati i carabinieri che per primi sono arrivati sul posto dopo la strage e hanno poi condotto le indagini. “Dal poligono nessuno si era accorto di nulla” hanno dichiarato.
Il processo sulla strage di Fidene
Il processo sulla strage di Fidene entra nel vivo. Oggi nell’aula Accorsio della Corte d’Assise di Roma sono stati ascoltati i primi testimoni riguardo alla sparatoria avvenuta l’11 dicembre 2022 al bar “Il posto giusto” a Fidene”. A compiere la strage, durante una riunione del consorzio Valle Verde Claudio Campiti, 58 anni. L’uomo, che quella mattina di dicembre ha freddato a colpi di pistola 4 donne, era atteso oggi in aula ma ha poi rinunciato ad essere presente. Nel procedimento oltre a Campiti, accusato di omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, sono imputati altre due persone.
Le testimonianze dei carabinieri
Oggi in aula sono stati ascoltati alcuni dei carabinieri intervenuti sul posto subito dopo la sparatoria e che hanno condotto le indagini. Il maresciallo del Nucleo Radiomobile di Roma Daniele De Nigris ha raccontato l’atmosfera al momento dell’arresto di Campiti. La pistola dell’uomo si sarebbe inceppata ma è riuscito a risolvere il problema in fretta e a continuare a sparare. Nel frattempo, nessuno al poligono si era accorto che Campiti era uscito portando via una pistola.
Prossimi sviluppi del processo
Alla fine dell’udienza, dove erano presenti alcuni dei sopravvissuti e parenti delle quattro vittime, è stato mostrato il video delle telecamere di sorveglianza del bar che ha catturato i momenti della strage. La prossima udienza è stata fissata per il 22 maggio e dovrebbero essere ascoltati anche i primi testimoni della strage, ovvero i membri del consorzio sopravvissuti.
Attualità
Il divieto degli smartphone a scuola: una scelta coraggiosa?

Di fronte all’annuncio del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di estendere il divieto dell’uso dei cellulari anche agli studenti delle scuole superiori a partire dal prossimo anno scolastico, l’opinione pubblica si spacca: da un lato c’è chi accoglie con favore la misura, considerandola una necessaria inversione di rotta per ridare centralità alla didattica, dall’altro lato, non mancano le critiche: è davvero questo il modo giusto per affrontare il problema?
Valditara parla di un “intervento improcrastinabile”, giustificato dagli “effetti negativi ampiamente dimostrati dalla ricerca scientifica”. In effetti, numerosi studi hanno messo in luce il legame tra l’uso eccessivo degli smartphone e cali di attenzione, peggioramento del rendimento scolastico, aumento dell’ansia e disturbi del sonno.
Tuttavia, vietare l’utilizzo degli smartphone in classe può sembrare un approccio troppo rigido, quasi punitivo. Non tutti gli studenti usano il cellulare per distrarsi: alcuni lo sfruttano come strumento di studio, per cercare informazioni, tradurre testi, accedere a materiali didattici. Bandirlo in modo assoluto rischia di mandare un messaggio sbagliato: lo smartphone è un nemico, e non un mezzo da imparare a gestire.
Forse è proprio qui il nodo centrale della questione: educare, piuttosto che proibire. In un mondo in cui la tecnologia penetra ogni aspetto della vita quotidiana e lavorativa, non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi un uso consapevole e responsabile degli strumenti digitali? Imparare a staccarsi dallo schermo, a concentrarsi, a distinguere tra tempo utile e tempo perso, è una competenza fondamentale tanto quanto la grammatica o la matematica.
Inoltre, c’è da chiedersi quanto il divieto sarà davvero applicabile e quanto sarà efficace. Chi controllerà? Con quali sanzioni? Non si rischia di creare solo tensione tra docenti e studenti, senza risolvere il problema alla radice?
Il provvedimento annunciato dal ministro Valditara ha il merito di rimettere al centro il valore del tempo scolastico e l’urgenza di affrontare la questione del digitale tra i giovani. Tuttavia, un vero cambiamento culturale richiede più di un semplice divieto: serve un’educazione digitale integrata, una collaborazione tra scuola e famiglia, e una riflessione collettiva su che tipo di cittadini vogliamo formare.
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