Mondo
Non solo Gaza, ecco le aree che Israele occupa militarmente

Certo la striscia di Gaza dall’ottobre scorso orami sappiamo tutti (speriamo) come collocarla sulla cartina geografica e nella storia, ma conosciamo tutti i territori che Israele occupa e che originariamente spettavano alla Palestina?
Parliamo di un occupazione violenta nelle intenzioni e anche nei fatti , proprio perchè per ogni metro tolto alla Palestina ci sono migliaia di Palestinesi che si ribellano a questa forma di colonialismo. Ad approfittarsi di questo buco legislativo sono gli Imprenditori ebrei, che edificano nei territori Palestinesi.
West Bank, dove Israele investe in Giordania
Che la si chiami West-Bank o Cis Giordania cambia poco, tutta l’area compresa tra il confine Israeliano e il fiume Giordano è diventata la meta preferita degli investitori Israeliani, che potendo contare su f0ndi cospicui comprano le vaste aree fertili in mano alle famiglie Palestinesi, costrette ad addentrarsi nel deserto.
Data la completa mancanza di un autorità sufficiente a fermare gli investitori nel continuare i propri affari molto spesso sulle spalle dei Palestinesi sfrattati. Anche il governo Palestinese è gravemente colpevole di aver lasciato a loro stessi centinaia di migliaia di nuclei famigliari nella West Bank
Alture del Golan, le conquiste militari Israeliane
La zona del Golan non è stata occupata per ragioni economiche, è considerata da molti l’occupazione meno “grave” tra quelle Israeliane. Dopo la guerra dei 6 Giorni, nella quale Israele venne attaccato in maniera coordinata da Egitto, Giordania, Siria e Libano.
Proprio quest’ultimo perse dopo la sconfitta l’area del Libano del Sud che comprendeva sia le alture del Golan che le Fattorie di Sheb’a. Le alture del Golan sono diventate a tutti gli effetti territorio Palestine e avamposto dell’esercito per la difesa del confine.
Le Fattorie di Sheb’a invece restano a tutti gli effetti un territorio occupato abusivamente da Israele, che si è tenuto l’area come “ricompensa di guerra” e non la vuole cedere alla Libia, sua effettiva proprietaria.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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