Cronaca
APRILIA Marocchino inseguito e pestato a morte: due indagati

APRILIA Marocchino inseguito e pestato a morte: due indagati.
APRILIA Marocchino inseguito e pestato a morte. I contorni della vicenda, avvenuta nella notte tra sabato 28 e domenica 29 luglio, non sono ancora chiari. L’uomo, 43 anni, è stato trovato privo di vita lungo la via Nettunense, nei pressi della stazione di Campo di Carne. Vicino a lui un’auto, una Renault Megane, uscita fuori strada. Al momento indagati a piede libero due italiani di 43 e 46 anni incensurati: per loro l’accusa è di concorso in omicidio preterintenzionale.
La vicenda ha avuto inizio intorno alle 2:00 di notte: una telefonata al 112 di un residente della zona di via Guardapasso segnala un’auto sospetta, una Renault Megane, targata straniera e con forse due persone a bordo. Insospettiti dalla presenza del veicolo e nel timore che a bordo potessero esservi dei ladri, anche altri cittadini hanno allertato i Carabinieri, indicando gli spostamenti della vettura. Gli occupanti, resisi conto dell’eccessiva attenzione attirata, si sono infatti dati alla fuga.
Da una prima ricostruzione dei militari dell’Arma, tre cittadini avrebbero quindi iniziato a seguire l’auto, proprio, spiegano i carabinieri, “per segnalarne gli spostamenti”. L’auto sospetta si allontana e arriva fino alla Nettunense, dove esce di strada. E qui è stata ritrovata dai carabinieri, anch’essi nel frattempo sulle tracce dei presunti ladri.
Nelle vicinanze il corpo del 43enne marocchino, di cui i sanitari del 118, giunti sul posto, hanno potuto solo constatare la morte, “probabilmente di natura traumatica“. Con sé l’uomo, già noto alla Polizia, aveva anche una borsa con arnesi da scasso. Sul posto c’erano anche due residenti della zona, uno dei quali autore di una delle telefonate del 112. In più gli investigatori hanno trovato sul terreno delle impronte che dimostrerebbero la presenza sul posto di altre persone.
Per conoscere le esatte cause della morte, bisognerà ora attendere l’esito dell’autopsia. Da una prima ricostruzione, il marocchino sarebbe stato picchiato da due dei suoi inseguitori dopo essere uscito (pare autonomamente) dalla vettura finita fuori strada. Ma non si esclude che l’uomo abbia riportato delle ferite e delle lesioni anche in seguito all’incidente. Ciò potrà dirlo appunto l’autopsia. Da chiarire inoltre l’esatto ruolo dei due uomini italiani. Ricercato invece il complice, insieme al 43enne a bordo dell’auto, da dove sarebbe uscito dopo il sinistro facendo perdere le proprie tracce.
Le prime indagini dei Carabinieri hanno portato per due uomini italiani alla denuncia a piede libero con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Ulteriori elementi utili ai militari sono giunti dalle telecamere di videosorveglianza, oltre che dalla testimonianza di alcuni presenti. Queste ultime, spiegano i carabinieri, si sono viste infatti “impossibilitate a negare davanti all’evidenza”. Degli indagati, uno era rimasto sul luogo del misfatto, mentre il secondo, all’inizio allontanatosi, si è poi costituito dopo aver saputo che i Carabinieri lo stavano cercando.
I carabinieri di Aprilia, di concerto con la Procura della Repubblica di Latina, continuano dunque a indagare, per chiarire i contorni rimasti ancora oscuri della vicenda.
Attualità
Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.
L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.
Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?
A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.
I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.
Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.
Ultime Notizie Roma
Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?
È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.
Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica
Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.
Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.
La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.
La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.
Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.
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