Mondo
Usa – Il Baseball non è uno sport per neri.

Usa – Il Baseball non è sport per neri, crollo degli afroamericani nei college
Il baseball sta diventando sempre meno popolare fra gli studenti afroamericani, anche nei college che appartengono alla HBCU, la lega delle università rivolte alla popolazione di colore. Il baseball è stato superato dal football e dal basket.
Infatti quest’anno nelle formazioni studentesche, meno dell’otto per cento dei giocatori era di origine afroamericana. Ben undici punti in meno rispetto al 1981.
I motivi sono diversi: dall’impoverimento dei programmi per attirare i giovani verso questo sport nelle zone dove le comunità di colore sono più numerose ai costi. Infatti una buona mazza da baseball costa anche più di trecento dollari, partecipare alle trasferte può pesare per migliaia di dollari all’anno sul bilancio di una famiglia.
Come spiega Billy Hawkins (professore all’università di Houston ed esperto di legami fra sport e differenze razziali) “A differenza di basket e football, il baseball non ha fatto dell’essere nero un elemento culturale. Le culture dominanti sono quella bianca e quella ispanica”. La Bethun-Cookman University di Daytona in Florida, uno dei college storicamente frequentato da studenti di colore (ancora oggi rappresentano il 79 per cento degli iscritti), ha solo quattro giocatori afroamericani nella squadra di baseball: gli altri sono latinoamericani e giamaicani, oltre a 14 bianchi. E questo nonostante il college abbia un’eredita’ significativa: la squadra gioca al Jackie Robinson Ballpark, il campo dedicato al primo giocatore afroamericano nella storia del baseball, che gioco’ anche su questo terreno con la maglia dei Brooklyn Dodgers e divento’ un’icona del movimento per i diritti civili. Questa la sua spiegazione rilasciata al New York Times.
Attualità
L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.
È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.
Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.
In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.
Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.
Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.
L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.
Attualità
Statua Venere a Berlino rimossa per sessismo: arte sotto attacco o censura culturale?

Una decisione che fa discutere in tempi in cui la sensibilità collettiva verso le questioni di genere è (giustamente) in aumento, la rimozione di una statua raffigurante una Venere nuda a Berlino ha acceso un dibattito infuocato: l’opera, che riprendeva la tradizione classica della nudità femminile, è stata tolta dallo spazio pubblico con l’accusa di essere sessista.
La nudità nell’arte non è pornografia, né oggettificazione del corpo, ridurre ogni rappresentazione del nudo a una questione di “sessismo” è non solo limitato, ma pericolosamente superficiale.
Quando un’opera viene censurata non perché offende, ma perché potrebbe essere interpretata in modo offensivo, entriamo in un terreno dove il contesto, la storia e l’intenzione artistica vengono messi da parte in favore di una morale istantanea e poco riflessiva.
L’arte, per sua natura, non è sempre comoda né rassicurante: provoca, interroga, a volte disturba. Chiedere all’arte di conformarsi a uno standard etico e morale “sicuro” rischia di svuotarla di senso.
Infine, paradossalmente, è proprio questo tipo di censura che rischia di oggettificare la donna: non l’immagine in sé, ma l’idea che una figura femminile nuda non possa esistere nello spazio pubblico senza essere letta come offesa o strumento di dominio. Una donna nuda, in arte, non è automaticamente una vittima: può essere una dea, una madre, o semplicemente un simbolo estetico. Trattarla come un tabù è togliere complessità, non aggiungerla.
La battaglia per l’uguaglianza di genere è sacrosanta, ma confondere le immagini con le intenzioni è una forma di semplificazione che impoverisce tutti.
Rimuovere la statua della Venere a Berlino non è un passo avanti per le donne, ma un passo indietro per la cultura.
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