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Pollard in attesa di trapianto: necessita un cuore gigante per sopravvivere

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Pollard in attesa di trapianto: necessita un cuore gigante per sopravvivere

Lo stato di salute dell’ex campione NBA, Scott Pollard, che ha ora 48 anni, ha subito un peggioramento nel 2021 a seguito di un virus che ha portato a scompensi cardiaci. La sua genetica, che un tempo gli ha permesso di brillare nel mondo del basket, rappresenta attualmente un pericolo per la sua vita.

Pollard si trova attualmente ricoverato al Vanderbilt University Medical Center a Nashville, nel Tennessee, in attesa di un trapianto di cuore. In continuo monitoraggio, Pollard è collegato a macchine che regolano i battiti del suo cuore, in attesa di un organo compatibile e abbastanza grande da sostenere il suo corposo fisico, la cui statura (2.11 metri per oltre 120 chili) potrebbe ora rappresentare una minaccia alla sua vita. Ricordiamo che la sua stazza fisica ha permesso a Pollard di essere una stella della NBA per oltre un decennio, culminando con la vittoria dell’anello con i Boston Celtics nel 2008.

Nel 2021, Pollard ha contratto un virus che ha fatto esordire un problema genetico, una condizione che affligge anche alcuni membri della sua famiglia (suo padre è morto a 54 anni). Il battito del suo cuore è diventato irregolare, arrivando a battere fino a 10.000 volte al giorno. Pollard ha descritto come appare questa situazione asserendo: “Mi sento come se stessi sempre camminando in salita”. Nonostante abbia intrapreso trattamenti farmacologici, subito tre ablazioni e abbia avuto un pacemaker impiantato, la sua aritmia irregolare rimane ancora. Ecco perché la sua unica speranza ora è un trapianto, di un cuore particolarmente grande, in grado di pompare abbastanza sangue per il suo ampio corpo.

Pollard è consapevole delle sue difficili condizioni e della sfida che comporta la sua statura. Ha dichiarato: “Non si vedono molti vecchi della mia stazza in giro. Quindi lo sapevo per tutta la vita. Sì, essere alto è fantastico, ma non arriverò a 80 anni. Adesso tutto dipende dalla rete di donatori… non si possono fare previsioni, ma i medici sono fiduciosi che avrò un cuore in meno di un mese”.

Perciò, l’ex campione NBA si trova in una posizione paradossale di aspettare che qualcuno muoia affinché un cuore adatto diventi disponibile. “Quella persona finirà per salvare la vita di qualcun altro e in qualche modo diventerà un eroe. Quello che provo è un miscuglio di emozioni fortissime”, ammette. Fino alla data del trapianto, Pollard può solo riflettere sulla sua situazione: la stessa genetica che lo ha portato al successo nel basket è ora una minaccia per la sua vita.

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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