Attualità
Psichiatra con Basaglia chiude manicomio Roma: “Così ci sono riuscito”

La legge Basaglia a Trieste
Prima di diventare direttore del Santa Maria della Pietà a Roma, Tommaso Losavio ha lavorato a Trieste insieme a Franco Basaglia. In quel periodo si stavano preparando i cambiamenti che hanno portato all’approvazione della legge 180 nel 1978, con l’obiettivo di chiudere i manicomi e regolamentare il trattamento sanitario obbligatorio. Losavio ha contribuito a questo processo lavorando sulla quotidianità, con uscite dei pazienti, restituzione degli effetti personali e l’eliminazione della violenza e coercizione.
Il progetto a Roma
Losavio è stato l’ultimo direttore del Santa Maria della Pietà a Roma. Nel 1993 ha accettato l’incarico con l’obiettivo di chiudere definitivamente la struttura. Dopo sei anni di lavoro, tutti i pazienti sono stati trasferiti fuori dai padiglioni, dimostrando che era possibile chiudere un manicomio e reinserire le persone nella società. I pazienti erano stati per decenni ai margini della società e rimossi dalla realtà esterna, quindi era necessario trovare soluzioni abitative alternative.
Le difficoltà a Roma
Nonostante la legge Basaglia, alcune pratiche disumane erano ancora presenti nei manicomi, come il caso di Giuseppina, una paziente legata a un termosifone nel 1994. Losavio ha dovuto intervenire per garantire migliori condizioni ai pazienti, creando progetti specifici come quello per Giuseppina che hanno portato alla creazione di residenze per persone assistite dal Dipartimento di Salute Mentale. Questo dimostra che anche a Roma era possibile superare le prassi disumane ancora presenti.
Il cambiamento a Roma
Losavio ha portato avanti un progetto di chiusura del Santa Maria della Pietà, lottando contro resistenze e pratiche arretrate che ancora persistevano nel 1993. Grazie al suo impegno e alla sua determinazione, è riuscito a dimostrare che era possibile chiudere un manicomio e offrire soluzioni abitative alternative per le persone ospitate, svincolandole dall’istituzione manicomiale e reinserendole nella società.
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Attualità
La bandiera della Palestina a Ponza: un gesto di solidarietà e la deriva dell’intolleranza

Nella notte tra l’1 e il 2 giugno, intorno alle 2:30, un gruppo di barcaioli dell’isola di Ponza è stato oggetto di minacce per un semplice gesto di solidarietà: aver esposto la bandiera della Palestina sulle loro imbarcazioni come simbolo di sostegno ad una popolazione in una delle più gravi crisi umanitarie del nostro tempo. Dopo aver infastidito il guardiano del porto, gli autori dell’intimidazione hanno strappato e rimosso con la forza la bandiera palestinese.
È un episodio che va oltre il fatto in sé, perchè tocca il nervo scoperto di un’Italia che troppo spesso confonde la solidarietà con la provocazione e che si mostra incapace di accettare gesti di umanità se non allineati con un certo sentire politico.
Esporre la bandiera della Palestina, in questo contesto, non equivale a prendere parte a un conflitto, perchè è un’affermazione di empatia per le vittime civili, per i bambini sotto le bombe, per le famiglie distrutte da decenni di violenza. Non significa negare il dolore degli israeliani, né tantomeno giustificare il terrorismo, ma riconoscere la sofferenza di un popolo dimenticato e condannato.
Ponza, isola aperta al mondo, costruita nei secoli sull’accoglienza e sul passaggio di genti diverse, non merita che certi gesti vengano accolti con violenza. Il gesto di quei barcaioli va rispettato, anche da chi non lo condivide, perché la democrazia è proprio questo: il diritto di manifestare un pensiero pacifico, anche scomodo, senza temere ritorsioni.
Chi ha strappato quella bandiera ha voluto togliere voce a una parte della coscienza collettiva, ma non potrà strappare il senso più profondo della solidarietà umana.
In un tempo in cui il silenzio complice è la norma, chi ha il coraggio di esporsi, anche solo con un simbolo, merita rispetto, non intimidazioni.
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