Cronaca
Gina Lollobrigida truffata: nei guai l’ex assistente

Gina Lollobrigida truffata: nei guai l’ex assistente.
Gina Lollobrigida truffata. A raggirarla, approfittando della sua vulnerabilità, l’amico manager. Il quale, secondo la ricostruzione della Procura, in pochi anni avrebbe sottratto dal patrimonio della Diva almeno tre milioni di euro. L’uomo, oggi 32 anni ma all’epoca ventenne, ci sarebbe riuscito entrando nelle grazie della star, che lo aveva reso amministratore del suo immenso tesoro. Un ruolo che aveva portato la vita del giovane nel lusso, mentre il resto della famiglia della Lollo veniva allontanata e persino sfrattata. Sarà ora il pm Eleonora Fini a portarlo a processo, con l’accusa di circonvenzione di incapace. Lo stesso magistrato ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per il manager.
Alla cui intestazione i magistrati hanno trovato una Ferrari F12 ispirata alla vecchia Testa Rossa e tantissimi bonifici a cinque zero riversati sui conti correnti dei genitori. Una casa e due alberghetti di proprietà Lollobrigida, a un passo da piazza di Spagna, sono stati invece venduti e i conti della società svuotati. Manovre che avrebbero dilapidato il patrimonio dell’attrice, compiute nel quinquennio tra il 2013 e il 2018. A mettere nei guai il giovane manager una perizia psichiatrica effettuata sulla Lollo nell’estate 2017. Redatta dallo psichiatra forense Massimo Di Genio, vi si legge che la Diva, «pur senza sconfinare in una condizione di infermità mentale, presenta una personalità con caratteristiche disarmoniche in cui sono emersi tratti di tipo narcisistico, ossessivo, compulsivo, istrionico e paranoideo».
Tali caratteristiche hanno determinato «un indebolimento della corretta percezione della realtà e della capacità di rapportarsi a essa, tale da configurare una condizione di deficienza psichica». Il manager, forte del suo legame con l’attrice, si sarebbe fatto largo proprio approfittando «della vulnerabilità e menomazione del potere di critica» dell’attrice ormai novantaduenne. Che sarebbe stata isolata e ‘costretta’ a nominarlo amministratore della Vissi D’arte, società che gestisce i beni della Lollobrigida. Da qui ha inizio la lunga e fruttuosa depredazione, denunciata anni fa dall’unico figlio dell’attrice, Milko Skofic, dall’unico nipote Dmitri e dal marito Javier Rigau, protagonista del discusso matrimonio per delega. Ad assistere i tre l’avvocato Michele Gentiloni Silveri.
A luglio del 2015 Piazzolla avrebbe venduto tre appartamenti in via San Sebastianello, dietro piazza di Spagna, per complessivi 2 milioni e 100 mila euro. Tramite l’accesso ai conti della società, l’uomo avrebbe inoltre acquistato, mediante bonifici e prelievi di contanti, autovetture di lusso per oltre 800.000 euro. Tra esse, la Ferrari da 310.000 euro e una Ford Shelby Gt da quasi centomila. Le auto, secondo gli inquirenti, sarebbero state poi rivendute a stretto giro e il ricavato versato sui conti bancari dei genitori. Il patrimonio della diva comunque ora è stato messo al sicuro. A gestirlo sarà un amministratore di sostegno, nominato in sede civile dal giudice tutelare: la diva è stata infatti ritenuta «non in grado di provvedere alla gestione del suo cospicuo patrimonio».
Attualità
Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.
L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.
Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?
A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.
I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.
Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.
Ultime Notizie Roma
Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?
È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.
Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica
Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.
Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.
La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.
La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.
Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.
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