Cronaca
ROMA Operazione anti criminalità – Accuse pesantissime a carico degli arrestati
ROMA Operazione anti criminalità – I dettagli del maxi blitz di questa mattina ai danni delle cosche della ndrangheta

ROMA OPERAZIONE ANTI CRIMINALITÀ – Tra le persone coinvolte, 39 sono finite direttamente in cella, mentre alle altre 26 hanno ricevuto solo gli arresti domiciliari. La DDA della Procura di Roma ha disposto le restrizioni, eseguite dai Carabinieri del Comando Provinciale capitolino, coadiuvati dai colleghi di Reggio Calabria, Latina, Rieti, Viterbo, oltre che dallo Squadrone ‘Cacciatori Calabria’. Le accuse contestate, a vario titolo, vanno dall’associazione mafiosa, al traffico internazionale di stupefacenti aggravato dai metodi mafiosi, alla detenzione per spaccio, all’estorsione aggravata fino alla detenzione illegale d’arma. Presenti inoltre l’intestazione fittizia di beni e il traffico internazionale di rifiuti aggravato dal metodo mafioso.
ROMA OPERAZIONE ANTI CRIMINALITÀ, LE INDAGINI
Secondo quanto appurato dagli inquirenti dal 2018, l’associazione ‘ndrangheta’ operava nel territorio di tutte le province calabresi. Ramificazioni sono state tuttavia registrate anche in diverse regioni italiane (tra cui il Lazio) e perfino all’estero, dalla Svizzera all’Australia. In azione molte decine di locali, coordinati da un organo collegiale di vertice denominato ‘La Provincia’. Nei comuni di Anzio e Nettuno era inoltre attiva un’articolazione, che si avvaleva dell’intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà per conseguire i propri scopi. Tra questi, la gestione e il controllo di attività economiche in vari settori; delitti contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale, contro la pubblica amministrazione e in materia di armi e stupefacenti; assicurarsi l’egemonia sul territorio, accordandosi con associazioni omologhe e infiltrandosi nelle amministrazioni comunali.
ROMA OPERAZIONE ANTI CRIMINALITÀ, IL TRAFFICO DI DROGA
Della struttura criminale, oltre al capo M.G., farebbero parte anche numerosi esponenti di famiglie originarie del Cosentino. A comporla due associazioni, operanti nel narcotraffico e con a capo lo stesso M.G. e G.B. Entrambe molto dotate sotto il profilo finanziario e logistico, erano inoltre in grado di impossessarsi e far arrivare dal Sud America ingenti quantitativi di cocaina. In particolare, 258 kg provenienti dalla Colombia e giunti in Italia nella primavera del 2018. Disciolti nel carbone, furono poi estratti in un laboratorio nella zona sud di Roma. Di essi, circa 15 kg furono scoperti durante una perquisizione domiciliare: si trovavano in casa della sorella di uno degli affiliati (poi arrestata), nascosti in una valigia. Da Panama invece l’associazione voleva far arrivare altri 500 kg di stupefacente, a bordo di un veliero. Quest’ultimo era stato perfino restaurato e tutta l’operazione pianificata nei minimi dettagli. Alla fine però tutto era saltato dopo che il gruppo era venuto a conoscenza delle indagini in corso.
ROMA OPERAZIONE ANTI CRIMINALITÀ, TRAFFICO DI RIFIUTI E NON SOLO
Quanto invece al secondo reato ascritto, gli arrestati sono accusati di aver gestito abusivamente ingenti quantità di liquami, scaricati poi nelle fogne. Alcuni dei tombini utilizzati sarebbero stati realizzati all’interno di imprese di proprietà degli imputati nel comune di Anzio. I Carabinieri, per questo, ne hanno sequestrato preventivamente le quote, l’intero patrimonio, i conti correnti e le autorizzazioni all’attività. Durante le indagini, si è inoltre scoperto che due membri delle forze dell’ordine, agenti presso una caserma del litorale, passavano agli indagati informazioni riservate. Per questo entrambi sono finiti agli arresti, rispettivamente in carcere e presso il proprio domicilio. Uno dei due dovrà rispondere anche di concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora in corso al momento le perquisizioni presso i comuni di Anzio e Nettuno, alla ricerca di documenti utili alle indagini.
Attualità
Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.
L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.
Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?
A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.
I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.
Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.
Ultime Notizie Roma
Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?
È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.
Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica
Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.
Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.
La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.
La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.
Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.
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