Italia
Dania Mondini, i legali: “Situazione che tocca soprattutto le donne”
Dania Mondini, gli avvocati difendono la giornalista. E annunciano nuove iniziative, anche penali

Dania Mondini, il caso dilaga. Stanno facendo discutere non poco nelle ultime ore le denunce della giornalista in merito a ‘punizioni’ subite nella redazione del Tg1. Una vicenda che risale al 2018 e sulla quale non è ancora stata scritta la parola fine Per fare chiarezza, quest’oggi sono intervenuti all’Adnkronos i suoi legali, l’avvocato Ruggero Panzeri e il consulente Claudio Lojodice.
“DANIA MONDINI CORAGGIOSA A RIBELLARSI”
“Questa – hanno commentato – è una situazione che tocca soprattutto le donne. La nostra assistita ha avuto molto coraggio a ribellarsi. E ne sta pagando ancora gli strascichi sulla sua salute. Sembra un caso goffo di un collega incivile con cui si deve convivere, ma dietro si nasconde molto più. E lo si capirà meglio dalle nuove carte che abbiamo raccolto e che presenteremo alla Procura Generale“.
DANIA MONDINI: “TAR CI HA DATO RAGIONE”
Alla base di tutto, secondo i legali, ci sarebbe una disparità di trattamento: “La nostra assistita – raccontano – si vedeva negare promozioni che ad altri, con meno anni di servizio e grado di ruolo, venivano invece concesse. Per questo, nel 2020 ha chiesto alla Rai di accedere agli atti per capire il metodo di valutazione. Alcune di queste promozioni oltretutto riguardavano persone attenzionate oggi dalla stampa e con cui la Mondini avrebbe dovuto condividere le stanze. La Rai ha detto no alla richiesta e noi abbiamo fatto ricorso al Tar, che ci ha dato ragione“.
DANIA MONDINI: “ATTENDIAMO PARERE CONSIGLIO DI STATO”
La vicenda però è andata avanti: “La Rai – proseguono – si è quindi rivolta al Consiglio di Stato, che ha rispedito il giudizio ad un’altra sezione del Tar. E un anno fa anche quest’ultima ci ha dato ragione. La Rai ha però nuovamente fatto ricorso al Consiglio di Stato e adesso stiamo aspettando il verdetto“.
DANIA MONDINI: “COINVOLTI ALTRI DIPENDENTI RAI”
E oltre a quelli amministrativi, ha avuto anche risvolti penali: “Contestualmente – continua il racconto – abbiamo depositato una serie di denunce alla Procura di Roma. Questo perché ci siamo opposti alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm. Il gip aveva fissato l’udienza per ottobre 2021, ma, prima che si pronunciasse, la Procura ha avocato a sé il fascicolo penale. A suo parere, infatti, c’era un nesso tra i comportamenti degli indagati e le ripercussioni sulla psicologia della nostra assistita. Cosa che il pm, nonostante i riscontri medici, non aveva invece ravvisato. Adesso quindi attendiamo le determinazioni della Procura e intanto integriamo nuovi elementi probatori a carico di altri dipendenti Rai, diversi dai 5 indagati“.
Italia
Eseguito lo sfratto del centro Sociale Leoncavallo. Dopo anni lo stato vince la battaglia

Sfrattato e sgomberato il centro sociale Leoncavallo di Milano.
Milano: eseguito sfratto del centro sociale Leoncavallo
In questo momento a Milano stanno eseguendo lo sfratto del centro sociale Leoncavallo. La notizia battuta dalle agenzie di stampa informa che è stato eseguito il provvedimento di sfratto dell’immobile occupato abusivamente dal centro sociale Leoncavallo. Poco prima delle 9 l’ufficiale giudiziario con la collaborazione della polizia di Stato ha fatto accesso nell’ex cartiera di via Watteau.
Leoncavallo sfratto rinviato 100 volte
Lo sfratto del centro sociale di via Watteau era stato rinviato un centinaio di volte e lo scorso novembre il ministero dell’Interno era stato condannato a risarcire 3 milioni ai Cabassi, proprietari dell’area, proprio per il mancato sgombero. Nei mesi scorsi l’associazione Mamme del Leoncavallo aveva presentato una manifestazione d’interesse al Comune per un immobile in via San Dionigi che poteva rappresentare un primo passo per lo spostamento del centro sociale dall’attuale spazio. Lo storico ‘Leonka’, così lo chiamavano a Milano occupa lo spazio in via Watteau dal 1994.
Attualità
Tamara Ianni e la forza di rompere il silenzio. Una voce contro la mafia di Ostia

In un’Italia dove troppo spesso il silenzio è più forte della giustizia, la storia di Tamara Ianni è un grido potente che squarcia il complice silenzio; ex affiliata a uno dei clan criminali più feroci di Ostia, oggi è una collaboratrice di giustizia. Una donna, una madre, che ha scelto di denunciare, mettendo a rischio tutto, persino la vita della propria famiglia, pur di dire basta.
Il suo nome è emerso ancora una volta grazie a Belve Crime, programma condotto da Francesca Fagnani, che ha avuto il coraggio di affrontare in prima serata temi molto delicati. Nella sua intervista a volto coperto, Tamara Ianni ricorda i momenti che hanno segnato il suo passaggio da complice a testimone chiave nella lotta contro il clan Spada, una delle organizzazioni mafiose più temute del litorale romano; con le sue confessioni e quelle del marito, Micheal Galloni – nipote del boss rivale Giovanni Galleoni detto Baficchio – lo Stato è riuscito ad arrestare 32 membri del clan Spada nel 2018. Una frattura storica nella criminalità organizzata della capitale.
Il prezzo pagato da Tamara Ianni per aver scelto di parlare è stato altissimo, tra intimidazioni, violenze e minacce al figlio di appena due anni: e un boss con lamette infette in bocca, pronto a sputare sangue sul volto di un bambino innocente, nel tentativo di seminare terrore e sottomissione. In quel momento, Tamara ha alzato la testa, non per sé, ma per salvare suo figlio, e in quel gesto si concentra tutta la forza di una donna che ha deciso di rompere la catena del silenzio.
La sua non è solo una testimonianza processuale, è una lezione morale, un atto di coraggio che dimostra come la mafia possa essere affrontata, smascherata e persino colpita nei suoi equilibri più profondi, a patto che chi sceglie di parlare non venga lasciato solo, ma sostenuto, protetto, accompagnato da uno Stato che mantenga la promessa di giustizia.
Ed è proprio qui che si apre una ferita ancora aperta, una domanda scomoda e urgente: cosa stiamo facendo davvero per chi decide di denunciare? L’attentato del 2018, con un ordigno piazzato sulla casa dove Tamara viveva sotto protezione, ci ricorda che il rischio non finisce con una condanna, che la vendetta mafiosa è lenta, subdola, pronta a colpire nel tempo, e che chi collabora con la giustizia spesso è condannato a un’esistenza precaria, fatta di traslochi improvvisi, identità cancellate, isolamento sociale…
In un’Italia dove la criminalità organizzata continua a infiltrarsi nelle periferie, nei quartieri dimenticati, nei vuoti lasciati dalle istituzioni, figure come Tamara Ianni dovrebbero essere riconosciute come figure esemplari, simboli di un cambiamento possibile, di una scelta che, pur nel dolore, ha un valore collettivo enorme. Ma quante donne, quante madri, troverebbero la forza di fare lo stesso, sapendo di dover rinunciare a tutto, anche al diritto di vivere una vita normale?
Per questo la sua storia va ricordata, raccontata, portata nelle scuole, nelle piazze, nei luoghi della politica e della formazione, perché i giovani capiscano che la mafia non è invincibile e che dire no è possibile.
A volte, il vero eroismo non è nell’impugnare un’arma, ma nel trovare il coraggio di rompere il silenzio, anche quando tutti ti dicono di tacere.
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