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Cronaca

Spaccio a San Basilio, 15 persone nella rete della Polizia di Stato

Spaccio a San Basilio: il report del blitz degli agenti, avvenuto nelle prime ore di questa mattina

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Spaccio a San Basilio, 15 persone nella rete della Polizia di Stato

Spaccio a San Basilio, colpaccio delle forze dell’ordine. Che sono entrate in azione poco prima del sorgere del sole, anche con l’ausilio di un elicottero. In campo, oltre agli agenti del locale Distretto, gli uomini della Squadre Mobili di Roma e Rieti, dell’U.P.G.S.P e del Reparto Prevenzione Crimine Lazio. Un blitz frutto di una indagine complessa e articolata, avviata nel gennaio 2019 e condotta sotto la supervisione della D.D.A. capitolina. Manette sono così scattate ai polsi di 15 persone, appartenenti ad un sodalizio criminale attivo nel campo del traffico di stupefacenti.

SPACCIO A SAN BASILIO, L’ATTIVITA’ DEL SODALIZIO

Quest’ultimo, con base nel quartiere del IV Municipio, si avvaleva dell’attività di numerosi pusher. I quali consegnavano la droga a domicilio in tutta Roma, spostandosi con mezzi forniti proprio dal gruppo. Che inoltre metteva a disposizione utenze telefoniche, intestate in maniera fittizia, che i clienti potevano contattare per rifornirsi. Alle chiamate rispondeva un ‘centralinista’, che riceveva gli ordini sui quantitativi di stupefacente. Questi venivano poi spediti, tramite il pusher-corriere, direttamente a casa dei clienti. Due dei quali hanno però tradito il meccanismo, contribuendo a mettere gli investigatori sulle sue tracce.

SPACCIO A SAN BASILIO, LE INDAGINI

A loro la coppia si sarebbe rivolta dopo essere stata minacciata da un proprio parente per un vecchio debito. Nel novembre del 2017, infatti, i due, in cattive condizioni economiche, avevano accettato di custodire in casa, a San Basilio, 20 dosi pronte per essere vendute. Qualche giorno dopo però le avevano gettate via, temendo una perquisizione delle forze dell’ordine. Il sodalizio ha così cominciato a minacciarli, giungendo finanche a picchiarli, per indurli a ‘rimborsarne’ il valore, pari a 1200 euro. Dei 15 arrestati, 11 sono stati tradotti in carcere e 4 ai domiciliari. 1 kg di cocaina è invece finito sotto sequestro.

Attualità

Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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