Attualità
Neonata muore a Roma: le parole della mamma che chiedeva aiuto

A meno di un’ora dal parto la piccola Valentina è morta. È successo lo scorso 15 febbraio nell’ospedale Santo Spirito di Roma. I genitori della piccola, la ventinovenne Vlada Savciuc e il quarantanovenne Alessandro Corda, hanno presentato un esposto per quanto accaduto. La tragedia si poteva evitare? È questo l’interrogativo che non riescono a smettersi di porsi a poco più di una settimana dalla morte della neonata.
“Ero già stata male, avevo perso sangue. Avevo capito che c’era qualcosa che non andava. Ho chiesto aiuto ma nessuno è intervenuto, mi sono sentita abbandonata. Mi è stata vicina soltanto la mia compagna di stanza”, è il racconto della ventinovenne che, insieme al compagno, ha denunciato per conoscere la verità: le cause della morte della piccola e se c’era la possibilità di evitare la tragedia. Continuano le indagini: la Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo in ambito sanitario.
Cosa è successo in quella tragica notte Quanto accaduto per i due genitori è stata una enorme perdita. Ma ora sono determinati a capire cosa possa essere accaduto in quella tragica notte. Per questo è stata la stessa neomamma a ripercorrere quelle ore con la polizia giudiziaria, come riporta il Corriere della Sera.
“Quando ho chiesto aiuto erano le 3 di notte, ma a parte qualche parola di circostanza, nessuno ha fatto niente. Mi sono sentita abbandonata – ha raccontato – Ero già stata male un paio di ore prima, verso l’una. Avevo perso sangue. Due ore dopo la situazione è peggiorata. Mi sono spaventata, mi hanno detto che non c’era niente di cui preoccuparsi, ma che avrebbero comunque fatto arrivare un’ostetrica”. Invece, come sottolinea la ventinovenne, non è arrivato nessuno. “Sono stata lasciata sola, abbandonata. Con me soltanto il mio compagno e la mia compagna di stanza”. L’intervento dopo le ore sei La donna che era con lei, oggi testimone della tragedia, verso le cinque ha nuovamente sollecitato il personale medico. Soltanto dopo un’ora e mezza circa, la ventinovenne è stata portata in sala parto per un cesareo. Ma forse per la piccola Valentina era già troppo tardi.
La gravidanza era trascorsa in tranquillità, anche durante il primo dei quattro monitoraggi, il 13 febbraio alle 15.30, non era stato riscontrata alcuna anomalia. Il giorno dopo si sono rotte le acque e la ragazza è stata ricoverata. Poi, però, nella notte fra il 14 e il 15 febbraio, sarebbero arrivate le “copiose perdite di sangue” e sarebbe stato notato “cambiamento di colore e di intensità”: la situazione sembrava essersi aggravata.
Le indagini in corso: la cartella clinica sequestrata “Come è possibile averla fatta arrivare fino a questo punto?”, è quanto avrebbe urlato qualcuno del personale medico poco prima di portare la donna in sala parto. Ma non si sa ancora chi abbia urlato questa frase, né per quale motivo. Nell’esposto da cui è scattata l’inchiesta è presente anche questo dettaglio. Sul caso la Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo in ambito sanitario. Presto sarà disposta l’autopsia sulla piccola. Nel frattempo, nella giornata di martedì, è arrivata la disposizione del sequestro della cartella clinica che dovrà passare al vaglio degli inquirenti che stanno cercando di capire cosa sia accaduto in quella notte. La documentazione, però, è stata portata a piazzale Clodio soltanto nel tardo pomeriggio di ieri. per questo continuano i ritardi anche per gli esami sul corpicino della piccola, che sarebbe morta a neanche un’ora dalla nascita, forse dopo i primi vagiti.Fonte
Attualità
Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.
L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.
Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?
A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.
I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.
Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.
Ultime Notizie Roma
Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?
È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.
Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica
Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.
Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.
La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.
La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.
Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.
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