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Preso un uomo di 64 anni a Roma per usura

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Preso un uomo di 64 anni a Roma per usura

Rilascia prestiti ad amici e parenti, ma applicando tassi usurari anche di oltre il 900%. Dopo lunghe indagini è stato arrestato un 65enne romano.

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Approfittava dei momenti di difficoltà economica di amici, parenti e colleghi di lavoro. Prestava loro i soldi e poi applicava tassi di interesse usurari, anche di oltre il 900%. Per questa ragione un uomo di 64 anni romani, M.P., è stato arrestato questa mattina, lunedì 2 settembre 2024 dai carabinieri della stazione di Roma Porta Portese. Ora si trova agli arresti domiciliari, come ordinato dal gip del Tribunale di Roma, perché gravemente indiziato dei reati di usura, rapina, tentata estorsione ed esercizio abusivo dell’attività finanziaria.

La denuncia: “51 mensilità dal 2018 al 2022”

Le indagini sono scattate nel mese di settembre del 2022, dopo la denuncia di una delle vittime. A sporgere denuncia un cinquantottenne, collega di lavoro dell’indagato, che ha riferito del prestito e degli interessi spropositati chiesti dal sessantaquattrenne. Era giugno 2018, stava affrontando un periodo di difficoltà, anche di salute della compagna e della madre anziana, così aveva ottenuto un prestito di 500 euro. Disinteressato e disponibile all’inizio, il mese successivo il sessantaquattrenne ha iniziato a pretendere non soltanto la somma elargita, ma anche interessi sempre più alti giustificandosi: “Ti ho prestato i soldi per un guadagno, mica per niente”.

Così dal 2018 fino al 2022 il cinquantottenne ha iniziato a versare delle “mensilità”, per un totale di 51 versamenti e circa 20mila euro, per pagare il prestito di 500. Nei fatti, si tratta di un tasso di interesse pari al 917,64%.

Le indagini sull’usuraio

Non appena sporta denuncia i carabinieri della stazione di Porta Portese hanno fatto scattare le indagini coordinati dalla Procura della Repubblica di Roma. Nel corso degli accertamenti sono emersi altri quattro episodi di usura fra il 2019 e il 2023, con lo stesso modus operandi: prima la disponibilità a concedere denaro a colleghi di lavoro, parenti e conoscenti, poi la pretesa del tasso di interesse fra il 35% e l’80% con sanzioni fra i 90 e i 100 euro in caso di ritardo nel pagamento. Le somme dei prestiti, in questi casi, sono state anche più elevate, fra i 500 e i 4800 euro.

Dapprima disponibile ad aiutare e disinteressato, poi mostrava un comportamento da usuraio. I pagamenti avvenivano di persona, sul suo luogo di lavoro. Nel 2020, con il lockdown, i versamenti avvenivano con l’accredito di somme su una carta prepagata intestata ad una delle vittime di cui il sessantaquattrenne si era impossessato sottraendogliela con violenza. Gli accertamenti dei carabinieri hanno permesso di ricostruire, in questo caso, transazioni pari a 35.260,00 euro ed un volume di affari illecito di oltre 100.000,00 euro.

L’arresto è avvenuto questa mattina. Durante la perquisizione nell’abitazione, i carabinieri hanno trovato fogli utili alle indagini e nella cantina 13mila euro in contanti, immediatamente posti sotto sequestro.

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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