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Il Calippo Tour: tra libertà, sfruttamento e interrogativi morali

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Il Calippo Tour: tra libertà, sfruttamento e interrogativi morali

Il “Calippo Tour” è un fenomeno che ha suscitato un ampio dibattito, sollevando interrogativi sulla libertà individuale, l’etica e le dinamiche di sfruttamento nel contesto della sessualità online. Iniziato come un’iniziativa di Ambra Bianchini e Lovely Paolina, due influencer italiane, il progetto ha attirato l’attenzione per la sua proposta di incontri sessuali a pagamento con i fan, documentati su piattaforme come OnlyFans.

Da un lato, alcuni vedono nel Calippo Tour una forma di espressione della libertà sessuale e della disinibizione delle nuove generazioni. Le protagoniste sembrano esercitare il controllo sui propri corpi e sulle proprie scelte, sfidando le convenzioni sociali. Tuttavia, dietro questa apparente autonomia, vi sono preoccupazioni riguardo a possibili dinamiche di sfruttamento: secondo indagini, tra cui quelle condotte dal programma “Le Iene”, sembrerebbe che Ambra e Paolina non gestiscano autonomamente il progetto, ma siano supportate da agenzie con sede in Romania e da manager che organizzano le tappe del tour, gestiscono le comunicazioni con i partecipanti e stabiliscono i prezzi.

Un altro aspetto critico riguarda la pressione sociale esercitata sui partecipanti. Molti giovani potrebbero sentirsi spinti a partecipare per conformarsi al gruppo o per ottenere visibilità sui social, questa dinamica solleva interrogativi sul reale consenso e sulla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Inoltre, la mercificazione del corpo umano riduce l’individuo a merce, con profonde risvolti etici e psicologici, specialmente per i giovani che interiorizzano tali modelli.

Le modalità operative del Calippo Tour hanno suscitato ulteriori critiche: secondo testimonianze raccolte, i partecipanti sono stati invitati a pagare somme elevate per accedere a contenuti esclusivi o per partecipare a videochiamate, senza garanzie di interazione reale con le protagoniste. In alcuni casi, è emerso l’uso di bot per risposte automatiche, sollevando dubbi sulla trasparenza e sull’autenticità delle interazioni.

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Attualità

L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

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L’ 8 e il 9 Giugno si vota: una scelta che riguarda tutti

L’8 e il 9 giugno milioni di cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi su due referendum abrogativi, che toccano temi centrali come il lavoro e l’immigrazione, e come troppo spesso accade, milioni di persone non ci andranno: rimarranno a casa per disillusione, per indifferenza, perché “tanto non cambia nulla”.

È una rinuncia, non solo a un diritto, ma a una possibilità concreta di contare, di orientare scelte che riguardano il lavoro e le politiche migratorie. Si vota per dire sì o no a norme che regolano direttamente i diritti dei lavoratori e le politiche migratorie.

Non partecipare a questo processo è un errore e, in parte, una colpa. Perché chi non vota, lascia agli altri la responsabilità di decidere. Ogni voto perso è un pezzo di democrazia lasciato indietro, un’occasione che si spegne.

In Italia siamo spesso bravi a lamentarci, a denunciare l’incoerenza dei partiti, l’inutilità delle istituzioni, la distanza della politica. Ma poi, quando c’è l’occasione per fare la propria parte, si resta indietro, si sceglie il silenzio.

Votare non è un atto eroico, non risolve tutto, non cambia il mondo da un giorno all’altro, ma è un segnale di partecipazione. C’è chi ha lottato, chi ha marciato, chi ha sfidato regimi, censure e repressioni per ottenerlo. In Italia, fino al 1946 le donne non potevano votare, è passato meno di un secolo, e prima ancora milioni di italiani – poveri, analfabeti, lavoratori – erano esclusi dalle urne per legge.
Il suffragio universale è una conquista recente ed è costato sacrifici e battaglie civili. E oggi, non partecipare al voto con indifferenza significa anche mancare di rispetto a quella memoria, a chi ha aperto la strada per farci contare e per farci scegliere.

Chi ha perso il diritto al voto, nella storia, sa quanto vale.
Noi lo diamo per scontato, e invece oggi, più che mai, va difeso.

L’8 e il 9 giugno si vota. Non è uno slogan, è un invito, ma anche qualcosa di più: una responsabilità personale e collettiva. Chi se ne tira fuori, poi, non potrà dire che la politica non lo rappresenta, perché ha scelto di non esserci.

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Femminicidi e scuola: un appello all’educazione affettiva

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Femminicidi e scuola: un appello all’educazione affettiva

Di fronte all’ennesimo femminicidio, la reazione è spesso la stessa: sconcerto, rabbia, dolore. Poi, troppo spesso, il silenzio. Un silenzio che dura fino alla prossima tragedia, in un ciclo che sembra destinato a ripetersi. Ma la verità è che ogni femminicidio non inizia con un colpo, inizia molto prima, nei gesti piccoli ormai normalizzati e nei ruoli imposti.

La scuola è il primo spazio pubblico in cui i bambini imparano a vivere con gli altri: è il luogo dove si formano le idee, si costruiscono le identità, si assimilano i modelli sociali.. parlare di femminicidio a scuola non significa portare dentro le aule la cronaca nera, ma riconoscere che la violenza di genere è un fatto culturale, prima ancora che criminale.

Serve un’educazione affettiva che aiuti i ragazzi a interrogarsi su cosa significhi amare, rispettare, comunicare e gestire il conflitto. Serve un’educazione emotiva che insegni a nominare le emozioni, riconoscerle, non reprimerle né trasformarle in rabbia.

Eppure, in Italia, l’educazione sessuale e affettiva non è obbligatoria. Viene spesso ostacolata, ridotta a interventi occasionali, lasciata alla buona volontà di singoli docenti o associazioni; come se parlare d’amore, di rispetto, di corpo e consenso fosse un tabù più pericoloso della violenza che esplode quando quei temi vengono ignorati.

La scuola ha il dovere di preparare cittadini, non solo studenti. E in una società in cui le disuguaglianze e la violenza di genere sono ancora profondamente radicate, non si può più considerare opzionale l’educazione al rispetto e alla parità. Non basta conoscere Dante o la matematica, se poi non si è in grado di costruire relazioni sane, di accettare un no, di riconoscere la libertà dell’altro come inviolabile.

Il cambiamento culturale non sarà immediato., ma può cominciare in una classe, da una domanda, da una discussione, da un dubbio piantato nella mente di un ragazzo o una ragazza, può cominciare quando smettiamo di pensare che “certe cose” non si dicano ai giovani, e iniziamo invece a fidarci della loro intelligenza e sensibilità.

Se vogliamo davvero fermare i femminicidi, dobbiamo smettere di parlarne solo dopo e cominciare a parlarne prima. Dove si cresce, dove si impara a diventare adulti e dove si può ancora cambiare.

 

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