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Frecciarossa deragliato: indagata anche Rfi

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Frecciarossa deragliato: indagata anche Rfi

Anche Rfi indagata per il deragliamento del Frecciarossa Milano-Salerno avvenuto a Ospedaletto Lodigiano. I magistrati della Procura di Lodi Domenico Chiaro e Giulia Aragno in base alla legge 231 del 2001, quella che regola la responsabilità delle società per i reati dei dipendenti, ha iscritto la società Rete ferroviaria italiana nel registro degli indagati.

Indagata anche Rfi per il deragliamento del Frecciarossa. Nell’indagine aperta per omicidio colposo, lesioni plurime e disastro ferroviario, sono indagati cinque tecnici manutentori: quattro operai e un caposquadra. Il personale che, la notte precedente all’incidente aveva lavorato sullo scambio che gli inquirenti hanno trovato aperto verso un binario morto. E che avrebbe innescato il deragliamento del treno che viaggiava a 290 chilometri orari. Gli inquirenti ipotizzano che al termine del lavoro gli operai possano aver lasciato lo scambio in una posizione errata rispetto «a quella di giusto tragitto».

Per compiere gli accertamenti la Procura ha nominato consulenti gli ingegneri Roberto Lucani e Fabrizio D’Errico. Gli stessi periti dell’incidente di Pioltello del 25 gennaio 2018. Spetterà a loro redigere la consulenza che dovrà stabilire l’esatta posizione in cui si trovava lo scambio. E sempre a loro spetta stabilire se i lavori compiuti dagli operai fossero eseguiti correttamente. O, come ipotizza la Procura di Lodi, «non in modo adeguato». Durante un interrogatorio di oltre 12 ore gli operai hanno spiegato che solo due di loro hanno lavorato quella notte a quello scambio. In particolare si sarebbe proceduto alla sostituzione dell’attuatore (il meccanismo che comanda lo scambio). Ma hanno confermato di aver lasciato i binari nella posizione corretta dopo aver «disalimentato» lo scambio.

Le difese degli operai hanno chiesto verifiche sui pezzi di ricambio installati e forniti da una azienda specializzata del settore. Le perizie dovranno chiarire se, come sospettano gli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari della Polfer, fosse isolato anche il sistema di sensori di sicurezza che doveva trasmettere in tempo reale la posizione del deviatoio alla centrale Alta velocità di Bologna. Gli operai hanno detto di aver disalimentato solo il motore che aziona lo scambio ma di non aver isolato il sistema di controllo. In un fonogramma inviato alle ore 4.45 la squadra ha comunicato che lo scambio era in posizione «normale».

Da Bologna avrebbero dato l’ok al passaggio del treno. Ma questo senza poter «vedere» i sensori dello scambio ma affidandosi a una procedura «manuale». Procedura comunque prevista dalle procedure ferroviarie in casi di anomalie al sistema computerizzato. Nelle prossime ore saranno ascoltati anche gli addetti della centrale Alta velocità di Bologna. Da chiarire anche se gli operai abbiano ricevuto pressioni per riaprire la linea benché il guasto non fosse del tutto risolto.

Alle 5, infatti, i binari sono stati riaperti e il Frecciarossa deragliato è stato il primo convoglio a transitare. Le indagini dovranno inoltre chiarire se gli operai avessero la necessaria formazione professionale per lavorare sulla linea. I legali degli indagati parlano «di tecnici molto esperti e preparati». Sul tema della sicurezza ferroviaria, spiega Rfi, «dal 2002 al 2019 gli investimenti realizzati sono raddoppiati. Da 1.146 milioni di euro nel 2002 sono passati a 2.240 milioni di euro nel 2019».

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

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Roma, giovane cuoco ucciso al parco: si indaga su una tentata rapina, ma il portafoglio era intatto

Tragedia alla Montagnola, nella periferia sud della Capitale: Mamun Miah, 27 anni, cittadino del Bangladesh e cuoco in un ristorante di piazza Venezia, è stato trovato senza vita al parco della Solidarietà, nei pressi del civico 393 di via Cristoforo Colombo. Il giovane è stato colpito al torace da una coltellata che non gli ha lasciato scampo, l’aggressore è fuggito ed è tuttora ricercato.

L’ipotesi investigativa principale resta quella della rapina finita male. Secondo alcuni amici della vittima, connazionali che spesso trascorrevano con lui le serate nel parco dopo il lavoro, Mamun avrebbe reagito a un tentativo di furto ed è stato accoltellato. I testimoni, pur trovandosi a una certa distanza al momento dell’attacco, raccontano di averlo visto discutere animatamente con un uomo nei pressi di un centro sportivo, non lontano dalla sua abitazione in via dell’Arcadia.

Ma il dettaglio che lascia perplessi è che nella tasca dei pantaloni del giovane è stato rinvenuto il portafoglio, completo di denaro e documenti. Un elemento che complica la lettura del movente: perché uccidere per rapinare, se poi l’aggressore fugge a mani vuote?

A destare ulteriori sospetti è l’identikit tracciato dagli amici di Mamun, che indicano come possibile responsabile un senzatetto della zona, noto per aggirarsi nei pressi del parco. Al momento, però, l’uomo non è stato rintracciato.

I carabinieri della compagnia Eur, insieme ai colleghi della stazione di San Sebastiano, stanno conducendo le indagini e sono già state acquisite le immagini delle videocamere di sorveglianza presenti nell’area per cercare di identificare chi fosse nei paraggi al momento del delitto. Sarà anche l’autopsia a fornire risposte decisive, chiarendo l’esatta dinamica dell’aggressione e se la vittima abbia tentato di difendersi.

Mamun Miah viveva da solo e lavorava duramente per mantenersi. I familiari, rimasti in Bangladesh, sono stati avvisati della tragedia. Nel frattempo, la comunità bengalese di Roma è sotto shock e chiede giustizia per un giovane la cui unica colpa sembra essere stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Un omicidio così brutale, in un contesto apparentemente tranquillo, riaccende i riflettori sulla sicurezza nelle aree periferiche della città: luoghi spesso dimenticati, dove la presenza delle forze dell’ordine non è costante e il degrado sociale favorisce l’emergere di situazioni pericolose. La morte di Mamun Miah non può restare solo una notizia di cronaca: deve spingere a riflettere su come tutelare davvero chi lavora onestamente e cerca solo una vita dignitosa.

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

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Quando la fede diventa spettacolo: il caso del nuovo imam di Bologna

La figura dell’imam, tradizionalmente, ha un ruolo fondamentale: guida spirituale, punto di riferimento religioso e promotore di dialogo e di pace nella comunità. Ma cosa accade quando la predicazione si trasforma in spettacolo social, e le invocazioni in contenuti virali su TikTok?

È quanto sembra emergere dal caso del nuovo imam di Bologna, subentrato dopo che lo storico imam Zulfiqar Khan è rimasto bloccato in Pakistan per motivi di sicurezza nazionale. Il nuovo arrivato, giovane e popolare, ha portato con sé un linguaggio decisamente più acceso, una comunicazione più aggressiva e una presenza social sempre più invadente.

Le dichiarazioni dell’imam, come quando critica i musulmani che si scambiano gli auguri di Natale, definendo questo gesto inaccettabile perché “a Natale è nato il figlio di Dio, e dire che Allah abbia un figlio è un insulto”, oppure quando afferma che donne e uomini non dovrebbero parlarsi liberamente, non sono semplicemente controverse: sono l’espressione di una visione chiusa e rigida, profondamente in contrasto con i principi di libertà e convivenza che costituiscono le fondamenta della nostra società democratica

Non è questo l’Islam che conosciamo attraverso tante persone musulmane che vivono e lavorano pacificamente in Italia, che credono in una fede fatta di rispetto, carità, umiltà e fratellanza. Non è questo l’Islam che, anche nelle sue interpretazioni più conservatrici, invita al confronto con il mondo e non alla sua demonizzazione.

Ma è proprio qui il punto dolente: il confine tra religione e ideologia, tra fede e potere, tra guida spirituale e influencer radicale. La religione, qualunque essa sia, non può essere usata per intimidire, per imporre un modello di comportamento che nega libertà individuali, specialmente alle donne.

La preoccupazione sollevata da alcune voci politiche non può essere liquidata come semplice allarmismo: siamo di fronte a una forma di radicalizzazione che si traveste da predicazione, ma che nei fatti mina le basi della convivenza civile. Quando un imam, per di più giovane e popolare sui social, usa il pulpito per attaccare, giudicare e dividere, non sta diffondendo fede: sta alimentando una cultura del sospetto, della chiusura e del controllo.

La cosa più pericolosa è che tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti, in video che raggiungono migliaia di visualizzazioni e parlano a un pubblico spesso giovane, in cerca di riferimenti e identità.

Continuare a ignorare questi segnali significa lasciare spazio all’estremismo, legittimarlo con il silenzio e permettere che cresca anche dove si dovrebbe invece coltivare il dialogo.

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